L’assenza di prove sui movimenti bancari riferibili alla società blocca la rettifica
Fisco bocciato sui controlli bancari. Per la Commissione tributaria regionale della Basilicata, sentenza 183/1/2018, depositata il 4 aprile 2018, deve essere annullato l’accertamento dell’ufficio che considera ricavi i movimenti bancari del socio di una società a responsabilità limitata. Ecco i fatti.
L’accertamento e la sentenza di primo grado
L’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Potenza, emette un accertamento nei confronti di una società a responsabilità limitata, basato sui prelievi fatti dal socio sul proprio conto corrente per 450mila euro. Il ricorso presentato dalla società viene accolto con sentenza n. 731/01/16 della Commissione tributaria provinciale di Potenza. Contro la sentenza, l’ufficio ha proposto l’appello, sostenendo che «il giudice di primo grado aveva errato allorquando senza specifica motivazione aveva ritenuto la nullità dell’avviso di accertamento non essendo stato attivato il contraddittorio endoprocedimentale che nel caso di specie, invece, doveva ritenersi essere stato regolarmente esercitato, come si evinceva dal verbale redatto dalla Guardia di Finanza dove risultava l’instaurazione del contraddittorio e l’invito alla parte a documentare quanto constatato».
In realtà, per contraddittorio endoprocedimentale o preventivo, si intende non quello fatto in sede di verifica della Finanza, ma quello che si deve obbligatoriamente fare con l’ufficio, prima che lo stesso emetta un atto impositivo. In proposito, è la stessa agenzia delle Entrate, con la circolare 16/E/2016, ad attribuire un ruolo fondamentale proprio all’obbligo di attivare, prima dell’emanazione dell’atto impositivo, il contraddittorio con il contribuente. Per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sentenza 48/02/2018, depositata il 17 gennaio 2018, «la violazione del diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, ossia antecedente all’emanazione dell’atto di accertamento, determina pertanto l’illegittimità dell’atto, e di conseguenza, il suo annullamento».
La sentenza dei giudici di secondo grado
Per la Commissione tributaria regionale della Basilicata, l’appello dell’ufficio va comunque rigettato «posto che l’accertamento impugnato in primo grado si basava sull’accertamento di prelievi effettuati dal socio sul proprio conto corrente, a lui intestato, senza che nei confronti del medesimo in quanto persona fisica, sia stata elevata alcuna contestazione ed effettuato alcun accertamento per cui non si comprende in primo luogo in che modo tali prelievi possono essere attribuiti a ricavi provenienti dalla società accertata che è una Srl e, in secondo luogo, non è stata data in alcun modo la possibilità alla persona fisica intestataria del conto giustificare e documentare la titolarità delle somme prelevate potendo le stesse derivare da attività diverse». Insomma, se il Fisco non “prova” che i conti sono fittizi, è escluso che i movimenti bancari del conto corrente del socio siano considerati ricavi della società.
Gli insegnamenti della Cassazione
Anche per la Cassazione, va annullato l’accertamento dell’ufficio, relativo all’anno 2002, che non “prova” in alcun modo che i versamenti rilevati sui conti personali del socio e della figlia fossero effettivamente riferibili alla società (ordinanza 9212/2018, depositata il 13 aprile 2018). L’onere di provare che le risultanze dei conti dei terzi sono riconducibili al soggetto indagato incombe sull’Amministrazione finanziaria. Per i giudici di legittimità, al fine di contestare la fittizietà dei conti bancari a terzi, è sempre «necessario che l’Agenzia provi che i conti, se pure a costoro intestati nella realtà, siano comunque utilizzati, anche in parte, per operazioni riferibili alla contribuente anche tramite presunzioni, sia pure senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali (in termini, tra varie, Cassazione 21 aprile 2016, n. 8112, 13 giugno 2014, n. 13473)».
In questo caso, dopo tre bocciature e dopo oltre 10 anni, il Fisco non incassa nulla ed è anche condannato al pagamento delle spese che la Cassazione liquida in 6mila euro per compensi, più 200 euro per esborsi e il 15% a titolo di spese forfettarie.