Controlli e liti

L’ufficio non può declassare a società di fatto la Srl cancellata e indiziata di illeciti fiscali

ADOBESTOCK

di Dario Deotto

Una società di capitali non può essere “degradata” a società di fatto in conseguenza dei presunti illeciti tributari commessi. È questo, sostanzialmente, quanto stabilito dalla Ctp di Milano, sezione 3, con sentenza 4030/2021 (presidente e relatore Locatelli). La pronuncia è interessante anche per comprendere fino a dove si spingono a volte gli uffici nell’attività accertativa.

Il caso è il seguente. Una società di capitali cancellata dal registro delle imprese veniva sottoposta a verifica (dopo la sua cancellazione). Le risultanze venivano consegnate all’ex liquidatore.

Seguiva atto di accertamento nel quale l’ufficio riteneva che la Srl dovesse considerarsi un soggetto giuridicamente inesistente, con la conseguenza che la società veniva riqualificata come società di fatto. Poiché nel 2015 non era stata presentata la dichiarazione dei redditi, l’ufficio procedeva ad effettuare un accertamento induttivo, che portava all’indicazione di un reddito d’impresa che veniva imputato per trasparenza ai soci della società ritenuta “di fatto”. Peraltro, il reddito accertato veniva considerato derivante da proventi illeciti.

Secondo la Ctp milanese, una società che ha acquisito regolare personalità giuridica con l’iscrizione nel registro delle imprese e che ha svolto determinate attività economiche non può essere considerata come una società di fatto. Viene fatto rilevare che la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che non è configurabile la simulazione del contratto sociale «sia in ragione delle inderogabili formalità che assistono la creazione e la stessa organizzazione dell’ente, sia in relazione alla tassatività delle cause di nullità previste dall’articolo 2332 del Codice civile». Ne consegue l’impossibilità di applicare alla società di capitali le norme sull’imputazione dei redditi per trasparenza ai soci delle società di persone ai sensi dell’articolo 5 del Tuir.

La questione della simulazione del contratto societario è vicenda remota. Se ne parlò già negli anni Cinquanta del secolo scorso, a proposito delle “società etichetta” che poi nel linguaggio comune divennero le società di comodo. L’obiettivo era quello, in pratica, di “scoperchiare” quegli enti che hanno solo “l’involucro” della società ma non la sostanza. Sicché si individuò il fenomeno del cosiddetto abuso della persona giuridica che venne, perlomeno inizialmente, considerato risolvibile mediante il ricorso alla simulazione ex articoli 1414 e seguenti del Codice civile. Si giunse, seguendo questo filone, a una storica pronuncia della Corte di cassazione (sezione III): la n. 8939 del 1° dicembre 1987. Secondo la Corte, l’atto costitutivo di una società che si sia limitata all’acquisto e alla gestione (mediante affitto) di un fondo rustico doveva ritenersi simulato.

Tuttavia, in seguito vi sono state innumerevoli pronunce (ex multis, Cassazione 3666/1997) che hanno costantemente stabilito che la simulazione non può eludere la tassatività delle specifiche cause di nullità previste dall’articolo 2332 dello stesso Codice. In questo senso, dunque, si allinea anche la Ctp di Milano, la quale, peraltro, rileva che sotto il profilo tributario l’Agenzia non ha attivato la specifica responsabilità dei soci prevista dall’articolo 36 del Dpr 602/1973.

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