Controlli e liti

Occultare le fatture non è reato se si può ricostruirle

immagine non disponibile

di Laura Ambrosi

Non è configurabile il reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili se l'imprenditore può ricostruire con altri documenti il risultato economico. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 22126 depositata ieri.

Un contribuente veniva condannato dal Tribunale per aver distrutto o comunque occultato la documentazione contabile. In particolare, la GdF rilevava l'esistenza delle fatture dalla n. 1 alla 37 e della n. 47, mentre mancavano quelle dalla n. 38 alla 46.

L'articolo 10 del Dlgs 74/2000 prevede che è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni (pena aumentata dal Dlgs 158/2015) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l'Iva, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

La decisione del Tribunale veniva confermata dalla Corte di appello e pertanto l'imputato ricorreva in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, l'insussistenza dell'elemento costitutivo del reato.

I giudici di legittimità, ritenendo fondato il ricorso, hanno innanzitutto rilevato che il reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili è a dolo specifico, atteso che la norma fa espresso richiamo al «fine di evadere le imposte».

Ne consegue che il giudice deve accertare e adeguatamente motivare la sussistenza in concreto dell'elemento soggettivo sulla finalità di evasione.

Il reato in questione, ha precisato la Suprema corte, non è configurabile quando il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria può essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall'imprenditore interessato.

Si tratta, infatti, di una condotta priva della necessaria offensività.

Nella specie, le fatture rinvenute erano più o meno tutte di analogo valore economico, con la conseguenza che verosimilmente anche quelle mancanti erano dello stesso importo. Ne conseguiva, così, un'agevole ricostruzione del reddito non documentato e lo scarso valore economico dello stesso, poteva escludere fin da subito l'intento evasivo.

La decisione pare discostarsi rispetto all'orientamento espresso sul punto in precedenti pronunce. In particolare, secondo un'interpretazione particolarmente rigorosa, la Cassazione (sentenze 39771/09 e 3057/08) aveva affermato che ai fini della configurabilità del reato di cui all'articolo 10 del Dlgs 74/2000 non fosse necessaria la verifica in concreto dell'impossibilità assoluta di ricostruire il volume d'affari o i redditi, essendo sufficiente un'impossibilità relativa.

La condotta illecita, in altre parole, si consuma anche se alla ricostruzione del volume di affari o dei redditi sia possibile pervenire altrimenti.

Ciò in quanto l'interesse tutelato dal delitto in questione è il corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale che viene meno ove i documenti siano dolosamente sottratti o distrutti a danno dei verificatori.

Restano escluse da responsabilità penali, invece, le ipotesi in cui il mancato rinvenimento delle scritture contabili non sia causato dalla volontà del contribuente (smarrimento, furto, incendio, ecc.).

Alla luce della nuova pronuncia, parrebbe ora sussistere una sorta di surrogabilità dei documenti mancanti.

Nella specie, peraltro, la ricostruzione dei redditi contenuti nelle fatture mancanti era determinabile – secondo i giudici di legittimità – anche con una ricostruzione induttiva utilizzando quanto consegnato in sede di verifica.

Cassazione, III sezione penale, sentenza 22126 dell’8 maggio 2017

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©