Contabilità

Operazione trasparenza di Zuckerberg

di Marco lo Conte

Il cambio di passo ha una data simbolica precisa, il 1° novembre scorso, quando Mark Zuckerberg, a margine dell’annuncio dei risultati del terzo trimestre, ha indicato ai suoi la parola chiave dello sviluppo di Facebook nei prossimi mesi: trasparenza. Il fondatore del social media più diffuso al mondo ha voluto imprimere una svolta eclatante nella politica di relazione della piattaforma nei confronti degli utenti, ma anche delle imprese – non ultime i publisher – e dei policy maker.

È in questo quadro che si iscrive l’annuncio di Facebook di contabilizzare i ricavi pubblicitari realizzati nei singoli paesi e di conseguenza versare all’Erario le tasse sui profitti realizzati. Una mossa che si iscrive in una strategia avviata dopo le elezioni Usa e le accuse ai social di aver condizionato il risultato elettorale attraverso fake news. Ma su cui evidentemente ha pesato il pressing dell’opinione pubblica e dei governi impegnati nella definizione della web tax, a partire dal G7 di Bari in poi. Hanno avuto un ruolo anche gli accordi con il Fisco di colossi come Google che hanno dato origine a multe milionarie per gli arretrati e secondo diverse fonti, Facebook ha contatti in corso da mesi con il Mef e l’agenzia delle Entrate. Forte di una profittabilità monstre dei propri ricavi pari a circa il 25%, il social media muove la sua torre contabile da Dublino, il quartier generale europeo, nelle singole caselle europee in un’operazione di avvicinamento ai policy maker. «Stiamo creando un sistema – dicevano Zuckerberg e il suo top team lo scorso primo novembre – per permettere ai nostri utenti di capire se un contenuto è sponsorizzato, di rintracciare altri contenuti sponsorizzati dallo stesso soggetto, in particolare per quelli politici. Ma allo stesso tempo di collaborare con i publisher per consentire loro di diffondere al pubblico informazione di qualità riconosciuta come tale in modo evidente».

Dopo le polemiche seguite all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – con il coinvolgimento di provider russi e server nei Balcani da cui sono partite campagne su inesistenti guai giudiziari di Hillary Clinton o il presunto endorsement di Papa Francesco a Trump – Facebook non intende accettare il ruolo di canale neutro di diffusione di informazioni. La ragione è più semplice di quanto possa apparire: un far west digitale non è il contesto ideale per chi come il social media incassa worldwide circa 1,5 miliardi di dollari ogni mese. Al contrario, un ambiente affidabile rende efficiente il posizionamento delle imprese che trovano sulla piattaforma il contatto con un pubblico di consumatori. Rende profittevole la costruzione di un’ambiente in cui è chiaro chi pubblica cosa, perché, come e cos’altro fa. In questo Facebook è alleata a Google nel transparency project proprio sul delicato tema dell’informazione, e autonomamente ha lanciato il Facebook journalism project, per identificare insieme agli editori strumenti adeguati per migliorare l’informazione presente sul social. Ed è proprio sulla costruzione di un pubblico di lettori sempre più avvertiti che il social media è impegnato, con iniziative di educazione digitale, come il decalogo per il riconoscimento delle fake news o il Trust indicator, che si affiancano alle iniziative di rimozione di post e di commenti offensivi o anche di interruzione delle inserzioni pubblicitarie a pagine caratterizzate da sensazionalismo, clickbait e complessivamente bassa qualità.

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