Piccole società, soci sotto tiro: così ci si difende dal Fisco
Gli accertamenti alle società che presentano una ridotta compagine sociale si sono da tempo evoluti verso un duplice esito: alla contestazione di un maggior reddito alla società fa seguito in modo pressoché automatico l’imputazione di dividendi “figurativi” ai soci. La giurisprudenza si è espressa molte volte sul punto, giungendo allo sviluppo di un filone dominante di sentenze che, nei fatti. confermano le ipotesi avanzate dagli uffici accertatori. In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato ricavi, il fatto che la cerchia sociale sia estremamente ristretta (pochi soci, in molti casi familiari o affini) fa presumere che il maggior reddito sia stato anche “ripartito” tra le persone fisiche.
Ci sono però due aspetti che possono mitigare queste considerazioni:
da un lato, la dottrina ha preso posizione contro l’applicazione di questo automatismo ai casi in cui gli accertamenti non si concretizzano in una maggiore disponibilità, anche finanziaria, sulla società;
dall’altro, le ultime pronunce hanno escluso, in particolari condizioni, la possibilità di accertare un dividendo in capo ai soci.
Esaminiamo il contenuto di tre recenti sentenze di interesse generale.
Il socio estraneo alla gestione
Secondo la Cassazione (sentenza 9 luglio 2018 n. 18042), se il socio è estraneo alla gestione non opera la presunzione di percezione di utili non dichiarati; pertanto, la presunzione può essere vinta dalla dimostrazione dell’estraneità di un socio alla gestione sociale. La sentenza riepiloga anche la giurisprudenza sul tema: «È legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, o da essa reinvestiti (Cassazione 5076/11, 9519/09, 7564/03, 6780/03, 7564/03, 16885/03, 18640/08 e 8954/13)». Inoltre «la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cassazione 1932/2016, 17461/2017 e 26873/2016)».
Il socio receduto in corso d’anno
Una seconda pronuncia (Cassazione, ordinanza 30luglio 2018 n. 20126) stabilisce che se vengono accertati maggiori utili non dichiarati a una società di capitali a ristretta base societaria, l’imputazione dei redditi ai soci non può riguardare quelli che non risultano più tali al termine del periodo di imposta. La Cassazione sostiene infatti che «benché nel caso si tratti non di utili risultanti da bilancio ma di utili extrabilancio, vale il principio (…) per cui non è giustificabile l’imputazione del maggior reddito societario, ai soci receduti in corso d’anno, in rapporto al periodo di partecipazione, posto che la maturazione del reddito da parte della società non avviene necessariamente secondo un criterio costante ed uniforme nel tempo».
I costi indeducibili
Segnaliamo infine una sentenza della commissione di primo grado di Reggio Emilia (11 maggio 2018 n. 63/2/18) che fa suo un principio già espresso dalla dottrina: la presunzione che i maggiori utili non dichiarati dalla società siano classificabili come dividendi in capo ai soci può essere sorretta dall’accertamento di ricavi in nero, ma non da quello di costi indeducibili che non consentono alla società di conseguire la provvista necessaria alla distribuzione. Se, nel caso generale, questo principio ha una forte base logica, nel caso specifico occorre notare che la ripresa fiscale consisteva nella contestazione di costi fittizi per operazioni oggettivamente inesistenti, e quindi da una violazione che potrebbe in linea astratta consentire una ripartizione di fondi neri tra i soci.