Quell’attrazione pericolosa per il regime forfettario
Il sistema fiscale italiano, per i contribuenti che esercitano attività di impresa o di lavoro autonomo, in possesso di alcuni requisiti operativi e con volume d’affari relativamente contenuto, sperimenta da oltre un trentennio (è del 1985 il regime forfettario voluto dall’allora ministro delle Finanze Bruno Visentini) alcuni regimi «super-semplificati». Tali regimi hanno subito un crescente successo negli ultimi anni: infatti dal 2012 al 2015 sono passati dall’11% al 19% del numero di titolari di partita Iva globali; mentre nel 2016, 165 mila soggetti hanno aderito al regime forfettario (sostitutivo dei precedenti minimi e minori), con un peso pari 27% delle attività iniziate in tale anno. I motivi di tale gradimento sono individuabili nell’esenzione Iva, Irap e delle ritenute d’acconto operate e subite, nel reddito determinato a forfait e soggetto a tassazione sostitutiva e nell’eliminazione della tenuta contabile.
Quello che, però, risulta essere il piatto forte è la progressiva esclusione da tutti gli strumenti di controllo e tracciabilità messi in campo, nel corso degli anni, dall’amministrazione finanziaria, quali gli studi di settore e parametri, spesometro, comunicazione black list e, a decorrere dal 1° gennaio 2019, gli obblighi di fatturazione elettronica previsti dalla legge 205/2017, per la generalità delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, effettuate sia nei confronti di soggetti passivi Iva (B2B) che di privati (B2C).
A questo punto la tentazione per un’accelerata migrazione verso il regime forfettario potrebbe essere forte ed irresistibile: invero, in base agli ultimi dati disponibili per l’anno d’imposta 2015, vi è una platea potenziale di 0,9-1,3 milioni di operatori economici per un totale di 7,3-13,4 miliardi di euro di redditi dichiarati, che, pur avendone i requisiti (539mila imprese e 371mila lavoratori autonomi hanno realizzano un volume d’affari inferiore, rispettivamente, a 25mila e 30mila euro), adottano ancora il regime ordinario/semplificato, sottostando agli adempimenti conseguenti; senza considerare tutti quelli che risulterebbero sedottati dal comprimere, più o meno legittimamente, il volume d’affari pur di rientrare nei relativi limiti (dai 25 mila a 50 mila euro in relazione all’attività svolta).
Potrebbe manifestarsi uno scenario, non tanto inverosimile, nel quale 1,8 milioni di partite Iva (pari al 50% del totale) opererebbero in maniera non tracciata e semi-sconosciuta all’agenzia delle Entrate, sollevati da qualsivoglia peso, salvo quello blando di auto-dichiarare, in assenza di controprova per il Fisco, la totalità dei ricavi percepiti (o presunti tali); con l’ulteriore effetto di rendere monco e, dunque, parzialmente inefficace l’intero sistema di controlli incrociati implementato.
Da una parte l’inferno dei semplificati ed ordinari: vessati, controllati e tartassati da balzelli ed adempimenti. Dall’altra il paradiso dei forfettari: esenti da ogni onere o accertamento e, quindi, facilitati nell’elusione ed evasione. L’esistenza di due ambiti tributari, all’antitesi l’uno dall’altro, nel quale collocare gli operatori economici, probabilmente meriterebbe qualche supplemento riflessione.