Adempimenti

Se la partita Iva diventa «impossibile» da chiudere

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di Giorgio Gavelli

Si può essere ostaggio della propria partita Iva? In un certo senso è quello che sta accadendo ai contribuenti che non applicano un regime di contabilità ordinaria e che, quindi, adottano per costi e ricavi un criterio di cassa (o “improntato alla cassa” come accade dal 2017 per i semplificati) e non un criterio di competenza. Si tratta, quindi, dei professionisti, dei semplificati, dei forfettari (che applicano il regime previsto dalla legge 190/2014, all’articolo 1, commi 54 e seguenti) e dei minimi (cioè coloro che, a esaurimento, sono ancora nel regime ex articolo 27 del Dl 98/2011). Il problema riguarda sia l’imposizione sui redditi – e l’Irap per chi ne è soggetto – sia l’Iva almeno per le prime due categorie di contribuenti (minimi e forfettari, ai fini Iva, si comportano come i privati).

Sotto l’aspetto reddituale, il tema si può affrontare partendo da quanto chiarito dalle Entrate con circolare 10/E/2016 (par. 4.3.5) in merito ai contribuenti forfettari, richiamando precedenti affermazioni riguardanti i minimi (circolare 17/E/2012) e i professionisti, in regime ordinario o semplificato (circolare 11/E/2007, risoluzione 232/E/2009). Per questi soggetti l’attività non può considerarsi cessata sino a quando «esistono ricavi e compensi fatturati e non ancora riscossi, ovvero costi ed oneri per i quali manca ancora la manifestazione numeraria». E lo stesso vale per le imprese in semplificata di cui al nuovo testo dell’articolo 66 Tuir, almeno laddove non abbiamo esercitato l’opzione di cui al comma 5 dell’articolo 18 del Dpr 600/1973.

In questa situazione – ossia nella normalità dei casi – fino all’esaurimento di tali operazioni “sospese” il contribuente è posto di fronte all’alternativa tra il mantenimento della partita Iva (e dei conseguenti obblighi dichiarativi) e «la facoltà di chiudere le proprie pendenze fiscali, imputando all’ultimo anno anche delle operazioni che non hanno avuto ancora manifestazione finanziaria». Il che significa anticipare le imposte a fronte di un incasso che potrebbe non giungere mai.

Poiché l’Agenzia ha richiamato i «ricavi fatturati» si potrebbe pensare che il problema non si ponga laddove, ad esempio in presenza di una prestazione di servizi, il documento ordinariamente rilevante ai fini Iva non sia stato ancora emesso. Al di là del fatto che un simile ragionamento creerebbe una disparità poco comprensibile tra contribuenti a seconda del tipo di attività esercitata, va anche considerato quanto sostenuto dalla Cassazione (a Sezioni unite) in tema di Iva. Con sentenza 8059/2016 la Corte ha concluso che il compenso professionale è soggetto a Iva anche se percepito dopo la cessazione dell’attività, poiché il fatto generatore del tributo va ricollegato all’esecuzione della prestazione.

Il sistema, quindi, non è in equilibrio e sconta la materiale impossibilità del contribuente di “riattivare” la posizione d'impresa (o di lavoro autonomo) dopo la chiusura della partita Iva, nel caso intervenisse l'incasso, in modo da assolvere ai vari adempimenti richiesti ed ancora sospesi. In alternativa si potrebbe ipotizzare un meccanismo di recupero delle perdite su crediti (e dell’Iva anticipata) in caso di documentata insolvenza del cliente dopo la chiusura dell'attività e conseguente forzosa imponibilità delle somme sospese, meccanismo, che, a ben vedere, sarebbe di interesse anche per chi cessa un'attività gestita “per competenza”.

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