Controlli e liti

Sugli omessi versamenti giudici alla ricerca del dolo

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

La causa di forza maggiore può escludere la commissione dei delitti di omesso versamento, ma la prova da fornire è molto rigorosa e incombe sull’imprenditore. È questo, in estrema sintesi, il più recente orientamento dei giudici della Cassazione (da ultimo la sentenza n. 38715 depositata ieri).

Nel nostro ordinamento se l’omesso versamento dell’Iva alla scadenza dell’acconto dell’anno successivo supera i 250mila euro scatta la sanzione penale della reclusione da sei mesi a due anni. Per le ritenute si applica la medesima pena, ove l’omissione, entro la scadenza della presentazione del modello 770, riguardi importi superiori a 150mila euro. Si tratta di reati apparentemente privi di dolo, innanzitutto perché l’imposta dovuta (ma non versata) è direttamente dichiarata dall’impresa che quindi non ha occultato nulla, poi perché spesso l’omissione è la conseguenza di una crisi di liquidità dell’azienda (mancati incassi e/o necessità di destinare le risorse disponibili per il pagamento di altri debiti). In sede difensiva, in presenza di questi illeciti, si è soliti invocare la scriminante della crisi di liquidità che è stata oggetto di numerose pronunce della Suprema Corte non sempre concordi tra loro. Sono così intervenute le Sezioni unite (sentenze 37424 e 37425 del 2014) che hanno indicato i presupposti per l’esclusione della colpevolezza.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, i giudici hanno chiarito che si tratta di reati per i quali non occorre il fine di evasione: sono infatti punibili per dolo generico, ossia per la consapevolezza di non versare all’erario le imposte dovute alle previste scadenze. Ne consegue, sotto questo aspetto, che l’assenza di liquidità, che ha impedito il versamento, non fa venir meno il dolo (generico) richiesto per la sussistenza dell’illecito.

Per quanto concerne invece la causa di forza maggiore o il caso fortuito, i giudici di legittimità penale hanno assunto un orientamento particolarmente rigoroso. È il giudice di merito a dover valutare «caso per caso, poiché occorre verificare che l’assenza di liquidità non sia dipesa dalla scelta di non far debitamente fronte all’adempimento. Il contribuente deve accantonare l’Iva incassata sulle fatture e, per le ritenute, ripartire le risorse disponibili eventualmente erogando anche compensi ridotti a dipendenti e professionisti. Occorre poi assumere tutti gli accorgimenti necessari per far fronte al pagamento (richieste di finanziamenti a terzi, istituti di credito eccetera) anche mediante un’esposizione personale dell’amministratore.

Recentemente la Suprema Corte ha ritenuto che non si commette il reato ai fini Iva se l’inadempimento è conseguente al mancato incasso di fatture da parte di clienti falliti e il contribuente si è comunque adoperato in altri modi per recuperare le somme da destinare all’erario (sentenza 37089/2018).

Secondo la Cassazione in assenza di pagamento delle fatture non è possibile rispettare il dovere di «accantonamento» dell’imposta per configurare la causa di forza maggiore.

Qualche giorno dopo questa pronuncia, i giudici hanno ulteriormente precisato che è colpevole l’imprenditore che sceglie di estinguere i debiti bancari e le ipoteche immobiliari con le somme disponibili derivanti dalla vendita dell’unico cespite, poiché l’opzione di non pagare il debito erariale è prova del dolo (sentenza 38593/2018).

Tali pronunce sembrano aver mitigato il rigoroso orientamento, ricercando cioè il dolo in specifici fatti concludenti dell’imprenditore. In concreto, infatti, è difficile provare la sussistenza della forza maggiore impeditiva del versamento all’erario, in quanto non è agevole dimostrare l’impossibilità per l’imprenditore di operare diversamente per cause indipendenti dalla sua volontà.

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