Sull’opera d’arte vigila la Consob
Non è un’opera d’arte ma un prodotto finanziario l’oggetto del contratto di compravendita con il quale un’opera d’arte viene venduta a un prezzo scontato (del 5-7% rispetto a un dato listino) e concedendo all’acquirente un diritto di “ripensamento”, e cioè la facoltà per l’acquirente di risolvere il contratto di compravendita e di ottenere (restituendo l’opera d’arte) la corresponsione di un importo pari al prezzo di listino dell’opera d’arte, con ciò garantendosi, di fatto, un rendimento finanziario della somma investita.
Si tratta dunque di un contratto di investimento finanziario che configura un’offerta al pubblico se proposto a una pluralità indifferenziata di soggetti, anche senza l’utilizzo di strumenti di pubblicità di massa. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 5911 del 12 marzo 2018. Nel caso esaminato, è stato ritenuto che le finalità dello scambio e le prospettive proposte agli acquirenti evidenziavano chiaramente che l’operazione compiuta dovesse essere qualificata come «investimento di natura finanziaria» e non quale mero investimento di beni materiali suscettibili di un godimento da parte dell’acquirente.
Il contratto di investimento – secondo la Cassazione – è infatti uno schema atipico, comprensivo di ogni forma di investimento finanziario, a prescindere dalla natura o dal tipo contrattuale adoperato: regolamentandolo, il legislatore ha preso atto della creatività del mercato e della molteplicità dei prodotti finanziari che possono essere offerti al pubblico; e pertanto risponde all’esigenza di tutela degli investitori, consentendo di ricondurre nell’ambito della disciplina di protezione dei risparmiatori - sottoposta alla vigilanza Consob - anche forme atipiche di collocamento di prodotti finanziari.
Per la qualificazione di questo contratto non è dunque decisivo il trasferimento di un bene in sé, neppure se suscettibile di un godimento da parte dell’acquirente, ma sono rilevanti la finalità complessiva dell’operazione posta in essere e le prospettive generali proposte agli investitori/acquirenti. Pertanto, si ha un contratto di investimento finanziario ogni qualvolta vi sia un conferimento di una somma di denaro da parte di un risparmiatore con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, vale a dire un’attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite, nell’intervallo determinato da un dato orizzonte temporale, e con l’assunzione di un rischio da parte dell’investitore: rischio consistente nell’incertezza in merito non all’entità della prestazione dovuta o al momento in cui questa sarà erogata, bensì alla capacità stessa dell’emittente di restituire l’importo percepito unitamente alla maggiorazione promessa.
La Cassazione (sentenza n. 2736/2013) aveva già dettato questi principi in un caso simile, nel quale venne riconosciuta la sussistenza di una transazione avente a oggetto un prodotto finanziario in una situazione in cui il meccanismo negoziale consisteva nella consegna in affidamento di un diamante, chiuso in un involucro sigillato, contro il versamento in denaro di una data somma (in ipotesi, euro 2mila) e l’impegno del venditore, dopo 12 mesi, di “riprendersi” il diamante, restituendo il capitale (di euro 2mila) e corrispondendo un ulteriore importo (in ipotesi, di euro 100) come “prezzo” della prestazione di custodia del diamante fornita dal soggetto “acquirente”: è stato dunque deciso, anche in quell’occasione, che, con tale meccanismo, in effetti, si realizzava un investimento del capitale da parte del compratore, con la prospettiva dell’accrescimento delle disponibilità dal medesimo investite.
Corte di Cassazione, sentenza n. 5911 del 12 marzo 2018