«Tovagliometro» a prova di critiche
L’accertamento analitico-induttivo resiste alle critiche dei contribuenti, se queste ultime non riescono a rappresentare una ricostruzione maggiormente realistica e attendibile rispetto a quella emergente dai calcoli dell’Agenzia, mettendone in luce anomalie e lacune. È questo il principio giuridico che emerge dalla decisione 1061/7/2016 della Ctr Veneto, depositata lo scorso 10 ottobre (presidente De Zotti, relatore Guarda).
Nel caso specifico, l’esercizio verificato era un ristorante di alta fascia situato sulla Riviera del Brenta. L’ufficio aveva rideterminato il reddito basandosi sul consumo di alcune materie e sul numero di tovaglioli lavati, a fronte di un reddito dichiarato dalla società decisamente modesto. I tentativi della difesa di “smontare” la ricostruzione dei verificatori (sostenendo che la zuppa di pesce veniva servita anche gratuitamente e che alcuni tovaglioli venivano utilizzati in cucina per pulire il pesce) sono falliti sia in primo che in secondo grado, non essendo stati ritenuti sufficientemente convincenti dalle commissioni adite .
Nel dettaglio, la Ctr afferma che il metodo utilizzato dall’ufficio per la rideterminazione del costo del venduto, alla base della ricostruzione reddituale, è corretto (la somma tra gli acquisti effettuati durante l’anno più le rimanenze iniziali, meno le rimanenze finali). Inoltre, l’eccepita variazione dei prezzi a causa della «grave crisi del settore», secondo i giudici al contrario «fa proprio presupporre che in quegli anni i prezzi siano stati mantenuti sullo stesso livello». La commissione, poi, sottolinea che la crisi «ha essenzialmente colpito il ceto medio», mentre Riviera del Brenta attira un turismo internazionale di fascia.Per tutte queste ragioni la Ctr Veneto respinge l’appello e condanna la società al pagamento delle spese processuali.
Dopo anni in cui la maggior parte degli accertamenti su artigiani, commercianti (e, in misura minore, professionisti) faceva leva sugli studi di settore, l’intervento della Cassazione a Sezioni unite (26635/2009) ha prodotto una svolta, che si è conclusa con il “pensionamento” dei medesimi studi come strumento di accertamento (articolo 7-bis, Dl 193/2016).
Gli uffici, infatti, hanno perso fiducia nel nuovo strumento, rifugiandosi in pieno nei “vecchi” accertamenti analitico-induttivi, basati sui consumi o su altri dati tratti dalla contabilità del contribuenti, “lavorati” opportunamente per fare emergere la grave incoerenza dei ricavi (e, quindi, dei redditi) dichiarati. Proprio quel tipo di accertamento che gli studi di settore dovevano servire a superare.
Di qui un nuovo fiorire di “tovagliometri” e “bottigliometri” (per i ristoranti), “federometri” (per gli alberghi), “tazzinometri” (per i bar) e via di seguito. Tutti termini creati dai media per rendere rapidamente il concetto alla base del ragionamento induttivo. Il problema di questi accertamenti è che, nel procedimento di calcolo, contengono sempre una serie di approssimazioni, in particolare laddove fondati su consumi medi tratti da check list oppure addirittura richiesti al (molto spesso incauto) contribuente.
È su queste variabili che, generalmente, si agisce in adesione per giungere a un accordo, ovvero su cui si dovrebbe adeguatamente insistere in sede di ricorso per cercare di incidere sulla credibilità dell’accertamento.
Infatti, ferma restando la legittimità del metodo utilizzato dall’ufficio (Cassazione 11622/2013 e 17408/2010), davanti al giudice viene messo alla prova la “tenuta” del ragionamento logico-matematico e, solo se si aprono delle falle in quest’ultimo, la difesa può avere successo (Cassazione 20060/2014, 13068/2011, 12438/2007 e 8869/2007), anche perché l’Agenzia non può elevare le proprie “medie di consumo” a fatti notori, ma deve dimostrarne la validità in giudizio (Cassazione 10204/2016, Ctr Piemonte 81/10/2011).