Bonus ricerca agli enti non profit legato all’attività commerciale
Non di rado progetti di ricerca e sviluppo ricollegabili al concetto di “innovazione” sono perseguiti da soggetti che appartengono al Terzo settore, come confermano anche i più recenti dati Istat. Stiamo parlando di enti non profit (associazioni, comitati, fondazioni, cooperative sociali, Odv e Onlus) che svolgono, anche occasionalmente, attività di ricerca e innovazione, sia a uso interno, sia nei confronti del mercato. Premesso che in questa sede, per comodità espositiva, continueremo a utilizzare l’espressione «enti non profit» in luogo di quella – coniata dalla recente riforma – di «enti del Terzo settore» , relativamente all’uso interno, ci riferiremo, principalmente, ad attività di ricerca che, in linea con gli scopi statutari, sia rivolta agli associati e agli stakeholder, senza avere un naturale sbocco economico o senza dare in modo tangibile risultati economici all’ente promotore.
Tuttavia, accade spesso che un soggetto terzo possa commissionare all’ente non profit una ricerca finalizzata a implementare o sviluppare la propria attività economica. Così come può avvenire che l’ente non profit sviluppi della R&D nell’ambito della propria attività commerciale (ipotesi, questa, espressamente prevista dal Dl 145/2013 e confermata anche recentemente dall’agenzia delle Entrate).
Questa breve premessa è prodromica alla comprensione di un fenomeno forse poco esplorato in Italia: la possibilità da parte del Terzo settore di sfruttare anche fiscalmente i benefici derivanti dall’applicazione del credito d’imposta sulla ricerca e sviluppo, come disposto dall’articolo 3 del Dl 145/2013. Dal punto di vista soggettivo, gli enti non profit possono usufruire essi stessi del credito d’imposta a condizione che svolgano un’attività d’impresa o commerciale. Questo significa che l’ente che svolga internamente e “naturalmente” attività di ricerca e non effettui un’attività commerciale, non potrà accedere all’agevolazione.
Nel caso in cui, invece, l’ente svolga sistematicamente – ancorché in via strumentale e quindi accessoria - questa attività e decida di “porla” sul mercato per l’eventuale commercializzazione dei soli risultati derivanti dagli investimenti, mantenendone la “proprietà”, potrà esserne beneficiario a condizione che fiscalmente abbia un’attività d’impresa. Non solo: l’attività di ricerca dovrà essere comunque ricollegabile all’attività commerciale esercitata.
Passando all’oggetto dell’innovazione agevolabile, la circolare 5/E/2016 include nel novero delle attività che possono potenzialmente dare luogo al beneficio anche gli studi nei settori storici o sociologici, ampliando di fatto ed estendendo il panorama delle attività sulle quali calcolare l’agevolazione. In linea generale, l’attività deve essere quindi rivolta «all’acquisizione di nuove conoscenze, all’accrescimento di quelle esistenti e all’utilizzo di tali conoscenze per nuove applicazioni», prescindendo dagli ambiti “classici” della ricerca ovvero quelli scientifici o tecnologici. La vera sfida per gli enti non profit è e sarà quella relativa alle modalità di calcolo e di estrazione dei dati per verificare la consistenza del credito d’imposta. Infatti la miscellanea dei costi sostenuti per gli investimenti nell’attività di R&D, fra parte commerciale e parte non commerciale (o meglio istituzionale), potrebbe determinare difficoltà operative concrete per il calcolo del credito. Dal punto di vista sistematico di ratio giuridica, certamente i costi ammessi all’agevolazione e rilevati nella parte commerciale sono da intendersi inclusi nel calcolo. Dubbi interpretativi possono sorgere nell’estrapolazione degli investimenti “contabilizzati” nella parte istituzionale o non commerciale, sulla quale sarebbe necessario un chiarimento dall’Agenzia.
Non sorgono problemi, invece, quando l’ente, in base alle previsioni contrattuali stabilite con il committente, effettua l’attività di R&D a prescindere dal fatto che questa sia svolta anche e non solo dalla parte istituzionale (come precisato in modo indiretto dal punto 2.2.3. della circolare 5/E, laddove si ammette che possono svolgere attività di R&D, per conto terzi, anche «altri soggetti», con una locuzione generica). Una delle condizioni poste dall’Agenzia è che il profilo dell’ente non profit che realizza la ricerca commissionata «sia coerente con l’attività effettivamente svolta dal commissionario» (lo stesso vincolo, del resto, vale anche per le imprese). Come afferma la circolare, non rileva per la realizzazione dell’attività di ricerca né che l’ente l’abbia nel proprio oggetto sociale questa attività né tantomeno – anche per effetto della legge di Bilancio 2017 - che usi personale «altamente qualificato». Ulteriore condizione è che il contratto preveda un corrispettivo specifico per l’attività e l’individuazione di un progetto di R&D vero e proprio. Non sono ammesse al beneficio le somme versate all’ente per svolgere genericamente attività di ricerca. Il risultato della ricerca deve essere a beneficio esclusivo del committente e non dell’ente non profit, per permettere al committente di usufruire del bonus fiscale.