C’è indebita compensazione anche per l’accollo fiscale di terzi
Commette il reato di indebita compensazione anche chi paga imposte di terzi attraverso il cosiddetto «accollo fiscale», utilizzando crediti inesistenti. A fornire questo importante principio è la Corte di cassazione, sezione terza penale, con la sentenza n. 29870 depositata ieri.
Ad una professionista legale rappresentante di una società di consulenza, unitamente ad altri soggetti, era contestato il reato di indebita compensazione di crediti tributari inesistenti. Più precisamente erano stati trasmessi telematicamente i modelli F24, nei quali veniva accollato il debito tributario di terzi utilizzando in compensazione dei crediti fittizi. Il Pm richiedeva il sequestro preventivo per equivalente per i beni mobili ed immobili della professionista, che veniva però respinto dal Gip. Il procuratore si rivolgeva così al tribunale del riesame che disponeva la misura cautelare.
Contro questa decisione ricorreva l’indagata, rilevando un’errata interpretazione della norma penale. In estrema sintesi, secondo la difesa, l’indebita compensazione è un reato proprio e pertanto può essere commesso esclusivamente da parte del contribuente. L’accollante, quindi, ossia il terzo che ha pagato attraverso la compensazione, non essendo il diretto debitore, non può assumere la veste di contribuente o di soggetto passivo dell’imposta. Da ciò consegue – sempre secondo la difesa – che non può ipotizzarsi alcuna responsabilità penale né diretta né in concorso, tanto più che i contribuenti interessati dalle compensazioni non avevano alcun procedimento penale a proprio carico.
La Corte di cassazione, confermando il provvedimento di sequestro, ha esaminato l’ambito del reato di indebita compensazione, che individua il soggetto attivo in «chiunque» compia l’indebita operazione. Il legislatore ha così attribuito rilievo non alla qualifica soggettiva di «contribuente», ma a chiunque compia l’azione penalmente rilevante. Il testo normativo fa espresso rinvio all’articolo 17 del Dlgs 241/97 che, in ambito tributario, disciplina l’istituto della compensazione. Tale norma richiama «il contribuente», poiché di prassi solo chi è soggetto passivo di imposta (ossia il contribuente) ha interesse a compensare con un proprio credito la posizione.
Peraltro, la disposizione non prevede l’ipotesi di accollo fiscale e disciplina solo il caso di coincidenza tra debitore e creditore dell’erario. Dalla lettura congiunta delle due disposizioni, il reato di indebita compensazione è integrato anche mediante la compensazione dei debiti con crediti di imposta inesistenti a seguito del cosiddetto accollo fiscale, commesso attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione.
In sostanza, la consulente è stata ritenuta l’autore diretto del delitto, poiché era il soggetto agente. Infatti, il debitore era estraneo e solo la condotta della consulente, attraverso l’accollo e la compensazione, aveva cagionato un danno all’erario.Da ultimo, la Corte ha precisato che, nell’ipotesi di indebita compensazione, il profitto del reato coincide con il totale dell’importo compensato, ossia il 100% del debito, perché il credito è inesistente.
Cassazione, III sezione penale, sentenza 29870 del 3 luglio 2018