Diritto

Concordato, i flussi generati dalla continuità restano nella disponibilità del debitore

Secondo la Corte d’appello di Milano non sono assimilabili alla finanza esterna

È da escludere che il surplus concordatario, ovvero la differenza tra il valore liquidatorio del patrimonio al momento dell’apertura della procedura ed il valore dell’azienda in continuità come indicato nel piano, rappresenti una risorsa esogena assimilabile alla finanza esterna.
Il valore generato dalla continuità, tuttavia, non necessariamente soggiace alla regola dell’absolute priority rule, obbligatoria invece per il valore di liquidazione, dovendo essere distribuito in percentuali via via decrescenti in base al grado di privilegio.

È il principio affermato dalla Corte di appello di Milano quarta sezione (presidente: Marchetti, relatore: Mammone) la quale, anticipando l’applicazione dei nuovi ed inediti principi introdotti dal recentissimo decreto Insolvency attualmente in fase di pubblicazione, ha rigettato il reclamo avverso il decreto del giudice di primo grado che aveva omologato una proposta di concordato preventivo.

Ad avviso della Corte, infatti, i flussi derivanti dalla continuazione dell’attività, detto anche surplus concordatario, rappresentano il risultato dell’utilizzo dei beni che compongono il patrimonio e ne determinano un accrescimento. La finanza esterna, invece, si caratterizza per la sua neutralità rispetto allo stato patrimoniale della società. Pertanto, finanza esterna e flussi da continuità devono esser tenuti distinti in relazione alle regole di distribuzione da adottare in caso di proposta di concordato preventivo.

I flussi da continuità, ancorché differenti rispetto al valore liquidatorio dal patrimonio, soggiacciono, secondo i giudici, a regole di distribuzione del valore verso i creditori avulse dallo statuto della garanzia patrimoniale prevista dagli articolo 2740 e seguenti del Codice civile. Infatti, nella fattispecie del concordato con continuità aziendale è indirettamente contenuto un limite alla regola della responsabilità patrimoniale, rinvenibile nella funzionalità della proposta concordataria al miglior soddisfacimento dei creditori rispetto all’ipotesi liquidatoria.

Da tale richiamo consegue che il confronto in questione debba essere effettuato con riferimento al patrimonio esistente alla data di apertura del concorso e l’idoneità al miglior soddisfacimento dei creditori non può essere vagliata tenendo conto di un auspicato “patrimonio futuro”.In caso di fallimento non sarebbero, infatti, acquisibili alla procedura concorsuale i benefici della prosecuzione dell’attività.

Principio peraltro positivizzato anche negli articoli 45 e 55 della legge fallimentare, richiamati dagli articoli 168, primo comma e 169, che individuano quale momento di cristallizzazione del patrimonio del debitore la data di presentazione della domanda di concordato.

La conseguenza, ad avviso della Corte, è quindi che la regola stabilita dal primo comma dell’articolo 2740 del Codice civile può operare solo ed esclusivamente con riferimento al patrimonio già esistente alla data di apertura del concorso, che è quello suscettibile di essere destinato al soddisfacimento dei creditori anche in mancanza di collaborazione del debitore.Ne consegue che, una volta eseguito il concordato e soddisfatti i creditori secondo la proposta, deve ritenersi legittimo che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale permangano nella disponibilità del debitore.

Quanto statuito dai giudici appare premonitore di una definitiva maturazione di principi giurisprudenziali che hanno dato i natali ai rivoluzionari interventi modificativi introdotti dal decreto Insolvency all’interno dello statuto del concordato preventivo con continuità aziendale.

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