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Corte Ue: sì alla nota di variazione anche senza insinuazione al passivo

Il diritto al recupero dell’Iva per i giudici europei non può dipendere dalla partecipazione al fallimento

Al creditore non può essere rifiutato il diritto alla riduzione dell’Iva assolta relativa a un credito non recuperabile qualora non si sia insinuato nel fallimento del suo debitore.

In questi termini la Corte di giustizia Ue, con la sentenza depositata giovedì 11 maggio (causa 146/19), ha concluso sulla questione – che è anche di interesse nazionale – circa la legittimità della nota di variazione in diminuzione in presenza di una procedura fallimentare del proprio cliente a cui il creditore non partecipa.

Sul punto, la posizione dell’amministrazione finanziaria italiana è sempre stata sfavorevole. Già la circolare 77/E/2000, considerando che ai fini del recupero dell’Iva non pagata dal debitore si dovesse attendere l’infruttuosità della procedura a carico di quest’ultimo, riteneva quale condizione preliminare alla precedente «la necessaria partecipazione del creditore al concorso». La linea restrittiva adottata dalla prassi si è arricchita, con il tempo, di altre pronunce. Da ultimo si ricordi la risposta a interpello del 3 giugno 2019 n. 178, nella quale l’agenzia delle Entrate chiarisce che nel caso di mancato pagamento in tutto o in parte conseguente all’accertata infruttuosità della procedura concorsuale a carico del debitore, la facoltà del creditore di emettere note di variazione ai sensi dell’articolo 26, comma 2, del Dpr 633/1972 è subordinata alla circostanza che il creditore (cedente/prestatore) partecipi alla procedura ossia, nel caso di fallimento, si sia insinuato nel passivo fallimentare.

Diversamente la Corte di giustizia. Questa considera che gli Stati membri, affinché la loro legislazione sia conforme al disposto dell’articolo 90 della direttiva Iva, devono permettere la riduzione della base imponibile qualora il soggetto passivo sia capace di dimostrare che il credito da lui vantato nei confronti del suo debitore presenti un carattere definitivamente irrecuperabile. In sostanza è ciò che accade nella situazione in cui, essendo mancata l’insinuazione del credito al passivo del fallimento instaurato nei confronti del debitore, i crediti in questione si considerano «estinti». La conseguenza di tale omissione è la riduzione definitiva degli obblighi del debitore nei confronti del creditore che legittimerebbe il suo recupero dell’imposta rispetto all’Erario.

Un altro spunto interessante che proviene dalla sentenza riguarda le misure che gli Stati membri possono adottare in deroga alle norme relative alla base imponibile, al fine di evitare evasioni o elusioni fiscali. Tali misure sono valide solo «entro i limiti strettamente necessari per raggiungere tale obiettivo specifico» e non possono incidere sui principi cardine dell’Iva, tra cui la neutralità. In questo senso, qualora esistono le prove che l’inerzia del soggetto passivo (il quale non ha insinuato il proprio credito alla procedura) è dovuta a comportamenti fraudolenti, ovvero a una collusione tra tale soggetto passivo e il suo debitore, sarebbe giustificato il mancato riconoscimento del credito. Ma non sarebbe legittimo introdurre a priori una presunzione generale di frode, rispetto alla quale la mancata insinuazione potrebbe non essere il sintomo. Sicché, nel caso in cui non emerge alcun indizio di abuso o di frode fiscale una misura del genere sarebbe eccessivamente costrittiva e contraria all’articolo 273 della direttiva 2006/112/CE.

In definitiva, sembrerebbe che la sentenza C-146/19 suggerisca un riadattamento delle posizioni domestiche a quelle dei giudici unionali, queste ultime più attente a garantire la neutralità dell’Iva anziché le formalità.