Fallimento, revocatoria delle rimesse bancarie basata su consistenza e durata
La revocatoria fallimentare in tema di rimesse bancarie prescinde dalla natura solutoria o ripristinatoria delle stesse, dovendosi piuttosto accertare se la riduzione dell’esposizione bancaria del cliente, poi dichiarato fallito, sia stata consistente e durevole. È questo il principio affermato nella sentenza 277/2019 del 9 gennaio scorso dalla Cassazione, pronunciatasi su una vicenda introdotta dalla Curatela di un soggetto che nei sei mesi antecedenti la data del fallimento aveva pressoché azzerato il proprio debito verso un istituto di credito, effettuando un unico versamento in conto di circa 2 milioni di euro, che contribuiva altresì ad estinguere un affidamento, già in essere, per un milione di euro.
Nello specifico, il Fallimento aveva chiesto la restituzione della differenza tra il massimo saldo passivo registrato nei sei mesi anteriori all’apertura della Procedura ed il saldo finale all’apertura del concorso, richiamando quanto dispone sul punto l’articolo 70 della legge fallimentare.
I Tribunali di merito, in primo e secondo grado, avevano sostanzialmente accolto la richiesta, pronunciandosi a favore della restituzione di un importo prossimo (in primo grado) o pressoché coincidente (in appello) con quanto rivendicato dal Curatore della Procedura attrice. L’istituto ricorreva in Cassazione lamentando, tra l’altro, l’errore dei giudici di merito nel non aver considerato la natura del versamento impugnato, che per oltre la metà era intervenuto a ridurre un conto affidato (su circa 2 milioni di versato, un milione era relativo ad una rimessa ripristinatoria di un affidamento).
La Suprema Corte ha dapprima richiamato sul tema l’elemento chiarificatore introdotto dalla riforma del 2005 con il nuovo articolo 67, comma 3, lettera b), che prevede l’esclusione da revocatoria per le rimesse bancarie che non abbiano ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione, prescindendo quindi dalla presenza di un conto scoperto, quindi soggetto a rimesse solutorie e revocabili, o solo passivo, dunque soggetto a rimesse ripristinatorie.
I giudici di legittimità sottolineano come proprio le distinzioni tecniche tra rimesse solutorie e ripristinatorie sono state in passato la causa di quello che la Suprema Corte definisce “dissonanza”, laddove si era in presenza di pagamenti effettuati all’interno della linea di credito accordata, sottratti di per sé ad ogni forma di revocatoria; basti pensare come il caso oggetto di pronuncia non sarebbe per buona parte stato assoggettabile a revocatoria applicando la normativa e la prassi ante riforma, essendovi la metà dell’importo versato nel semestre anteriore al fallimento (circa due milioni di euro) portato a riduzione dell’affidamento di un milione. Una rimessa ripristinatoria, di per se stessa non revocabile.
Tale ambito richiede oggi di valutare in concreto “l’esposizione debitoria”, concetto che comprende sia un conto scoperto, sia un conto coperto da affidamento, e constatare se vi sia stata o meno riduzione consistente e durevole nei sei mesi anteriori alla data di fallimento.
Il quantum da assoggettare a revocatoria deve emergere dalla verifica di una riduzione di debito caratterizzata dunque da consistenza e durevolezza, accertamenti che il giudice di merito dovrà effettuare verificando se dopo una rimessa vi siano stati utilizzi o altri accrediti, da parte del debitore o di soggetti terzi, ovvero se si siano succedute più rimesse infragiornaliere.
La Cassazione osserva, inoltre, che la disposizione di cui all’articolo 70 della Legge fallimentare, applicata pedissequamente dai giudici d’appello, fornisce in realtà unicamente la misura massima che il convenuto può essere tenuto a restituire, non costituendo una scorciatoia alla verifica che il sindacato di merito deve svolgere e che coinvolge l’esame delle partite intervenute nel periodo di osservazione e della loro concreta dinamica di accredito ed addebito.
In conclusione, il provvedimento in commento si allontana in modo netto dalla bipartizione solutoria-ripristinatoria in uso prima della riforma, che prestava il fianco ad incertezze interpretative e contrasti di orientamento, per abbracciare un principio sostanzialistico e di semplificazione del quadro.
Cassazione, sezione I civile, sentenza 277 del 9 gennaio 2019