Il rebus delle immobilizzazioni complica i conti sulla mini-Ires
Ammortamenti e dismissioni delle immobilizzazioni possedute al 31 dicembre 2018 rendono incerti i calcoli preventivi della mini-Ires. A fronte di un determinato ammontare di investimenti, il beneficio è dato dal minore importo tra la quota stanziata sui beni nuovi e l’incremento del residuo da ammortizzare rispetto al saldo di fine 2018, a sua volta influenzato, oltre che dagli investimenti, da variabili difficilmente preventivabili come ammortamento e cessioni dei beni preesistenti.
La pianificazione fiscale degli investimenti in relazione alla riduzione di 9 punti della aliquota Ires in presenza di utili accantonati costituisce un rebus. Non era così per il super e l’iperammortamento: il risparmio complessivo è sempre dato dall’aliquota Ires (o Irpef) moltiplicata per la maggiorazione percentuale del costo. Un analogo calcolo previsionale non è invece possibile per la mini-Ires. Il risparmio del 9% è infatti solo teorico, dovendo essere sottoposto ad una serie di condizioni generalmente verificabili a consuntivo.
Il comma 28 della legge 145/2018 prevede che la parte di imponibile soggetta alla aliquota ridotta del 15% si calcola assumendo il minore importo tra l’utile destinato a riserve disponibili e la sommatoria tra gli investimenti e il costo del personale assunto dal 1° ottobre 2018.
Per illustrare come fare la stima del tax saving, tralasciamo il cumulo con il costo dei neoassunti (l’agevolazione può infatti essere fruita anche solo con la componente investimenti), e ipotizziamo che vi siano sempre “utili a riserva” capienti.
Oltre all’acquisto di beni strumentali nuovi (esclusi immobili e auto in benefit a dipendenti), rilevano gli interventi di ammodernamento di impianti esistenti, a condizione, però, che siano tali da generare quote di ammortamento su beni materiali (con un dubbio per le migliorie su beni di terzi, ammortizzabili come oneri pluriennali).
L’importo agevolato è dato, in prima battuta, dall’ammortamento dell’esercizio sugli investimenti realizzati dopo il 31 dicembre 2018. Nel 2019 si avrà la prima quota sugli acquisti dello stesso anno (ridotta al 50%); nel 2020, una prima quota sugli acquisti del 2020 (al 50%) e un’altra (intera) sugli acquisti del 2019; e così via negli anni seguenti.
Per ogni anno occorre però confrontare l’ammortamento previsto sui beni acquistati dal 2019 con l’incremento del costo non ammortizzato che si stima esisterà a fine esercizio rispetto al 2018. Questa variabile costituisce la vera criticità dell’agevolazione perché, oltre che difficilmente preventivabile, è tale da generare, dopo alcuni anni dall’investimento, un tetto all’importo agevolabile. Chiaramente, l’impatto sarà tanto più rapido ed elevato, quanto maggiore è lo stock di immobilizzazioni in essere a fine 2018.
Per il primo esercizio (2019), il calcolo è semplice. Occorre confrontare gli investimenti con gli ammortamenti che si stanzieranno sui beni “vecchi” (oltre ad eventuali cessioni di cespiti non del tutto ammortizzati), dato che la quota dell’anno sui beni nuovi non riduce, come dice la legge, il residuo da ammortizzare. Se la differenza è capiente, il 9% spetta sull’ammortamento 2019 dei beni nuovi. Negli anni seguenti le cose si complicano. Se nel piano si ipotizza che non vi saranno ulteriori investimenti, l’incremento del residuo da ammortizzare si riduce progressivamente, per effetto sia degli ammortamenti sui beni vecchi, sia delle quote dei beni nuovi degli anni precedenti, con il possibile azzeramento dell’incentivo sull’investimento originario. Ad esempio, nel 2021, l’incremento sarà dato dal confronto tra investimento originario meno ammortamenti 2019 e 2020 sui beni nuovi meno ancora ammortamenti 2019-2020-2021 sui beni preesistenti.