In campo l’Ocse sul caso bitcoin
Il caso bitcoin, sintesi non esaustiva del mondo delle criptovalute virtuali, approda sul tavolo dell’Ocse. A nove anni dal debutto della più fortunata applicazione della “blockchain technology” – che è un nuovo modo di creare comunità aperte di transazioni digitali in espansione continua e disintermediate – l’Organismo per la cooperazione e lo sviluppo economico ha messo sull’avviso i consulenti fiscali, riuniti nei giorni scorsi al congresso mondiale di Rio de Janeiro: trattare con molta prudenza l’approccio con le criptovalute perché a breve potrebbe arrivare una regolazione internazionale per colmare i «buchi normativi».
Non è la prima volta che l’Ocse spiega i rischi della rivoluzione digitale della moneta: se è vero che disintermedia le transazioni (e cioè abbatte tutti i costi relativi) e che traccia tutte le attività, di fatto la “non moneta” si regge sul più completo anonimato protetto.
Un bel problema, questo, per il regolatore che da 10 anni ha dichiarato guerra all’evasione internazionale delle tasse; ma ancor più rischioso l’utilizzo del bitcoin & surrogati appare nella prospettiva dei commerci illeciti. In un paper di fine marzo scorso della Task force di contrasto agli illeciti commerciali, l’Ocse scrive che bitcoin nasce come sviluppo di un algoritmo per le scommesse (non a caso decolla subito come mezzo di pagamento dei casinò virtuali), viene cavalcato – anche – dalle grandi organizzazioni criminali. E oggi bitcoin e i suoi fratellini gemmati dalla blockchain technology (ne esistono ormai a centinaia) spuntano sempre più frequentemente «nelle transazioni illecite del traffico di droga, di armi e di prostituzione».
Il tema davvero critico di queste transazioni virtuali è l’anonimato: se è vero che tutto è tracciato e tracciabile, dentro l’ingegneristica dei blockchain, le transazioni possono essere poi ri-tracciate con un’identità crittografata.
In un mondo che pare ormai proiettato, anche sul versante consumatori, nella post-finanza, si aprono giganteschi problemi di controllo e non solo fiscale, a cominciare dal contrasto al riciclaggio internazionale e al finanziamento del terrorismo (aspetti strettamente collegati). Proprio su questo tema, il legislatore italiano si mantiene all’avanguardia, considerato che la valuta virtuale è già stata disciplinata dal decreto legislativo 90/2017 del giugno scorso di recepimento della IV Direttiva Ue sull’antiriciclaggio. Tra i prestatori di servizi di valuta virtuale vengono ricompresi sia le piattaforme elettroniche di scambio (exchange platform) sia i prestatori di servizi di portafoglio digitale (wallet provider) che offrono servizi di custodia delle credenziali di accesso alle valute virtuali: entrambi diventano «soggetti obbligati» alle segnalazioni antiriciclaggio, con obbligo di iscrizione in una sezione speciale del registro dei cambiavalute. In sostanza, l’Italia ha anticipato diverse previsioni contenute nella proposta di modifica presentata dalla Commissione europea alla VI Direttiva antiriciclaggio, che sarà in discussione entro il prossimo mese, disponendo con la norma nazionale di recepimento già in vigore che, oltre alle piattaforme di scambio, anche i prestatori di servizi di portafoglio digitale siano da considerarsi soggetti vigilati.
Questa presa di posizione italiana, però, è rimasta poco più che isolata anche dentro la stessa Unione europea, che rischia – in particolar modo sul versante orientale, sottolinea l’Ocse nei suoi paper – di diventare uno dei tanti trampolini di lancio della moneta (troppo) anonima.