L’occasione della riforma fiscale per allineare l’Iva italiana a quella Ue
La necessità di allineare la legge italiana al contenuto della direttiva europea deriva anche dal fondamentale principio dell'affidamento
Un elemento rilevante nel piano di ripresa e resilienza del nostro Paese riguarda la riforma tributaria, che viene vista soprattutto nelle interrelazioni e nella sistematicità della fiscalità diretta. Ma non può essere trascurata la revisione dell'imposta sul valore aggiunto, per i motivi che avremo modo di vedere.
In questo contesto si auspica significativamente di pervenire all'adozione di un vero "codice tributario", sulla falsariga del Code Général des Impôts francese o dell'Abgabenordnung tedesco.
Nel nostro ordinamento della vera e storica riforma tributaria, quella della legge 825/1971, la sfasatura tra l'istituzione dell'Iva e la riforma delle imposte dirette, rispettivamente con effetto dal 1973 e 1974, ha mantenuto la distinzione tra le norme di accertamento Iva, tuttora incluse nel Dpr 633/1972 e quelle delle imposte dirette, contenute nel Dpr 600/1973. E così quando l'amministrazione finanziaria inizia una verifica fiscale deve scrivere che sta operando ai sensi degli articoli 51 e 52 della legge Iva e degli articoli 32 e 33 del decreto sull'accertamento dei redditi, norme lunghissime e sostanzialmente identiche.
Ma al di là di queste riscritture a dir poco indispensabili, la legge Iva ha bisogno di essere ricondotta al dettato della norma sovraordinata, la direttiva europea, attualmente la 2006/112/CE.
Nei giorni scorsi la Corte di Cassazione ha pubblicato una pronuncia a dir poco dirompente rispetto al comportamento adottato da tutti gli operatori economici: alludiamo alla sentenza 11023 del 27 aprile 2021 che, facendo propri i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 27 marzo 2019, causa C-201/18 – Mydibel, ha dichiarato che il trasferimento della proprietà del bene alla società finanziaria in conseguenza di una operazione di lease-back non costituisce cessione di beni rilevante ai fini Iva, con la conseguenza che sono errate sia la fattura di vendita del bene all'operatore finanziario che le fatture imponibili emesse per i canoni: la prima era "fuori campo", per le seconde bisognava limitare la fatturazione alla componente finanziaria, esente da Iva.
Premettiamo che il lease-back è tuttora un contratto atipico, in quanto l'articolo 1, comma 136 della legge 124 del 4 agosto 2017, qualifica la locazione finanziaria, in coerenza con la normativa internazionale, consacrata dalla convenzione Unidroit, come contratto trilaterale, in cui devono intervenire il fornitore del bene, l'utilizzatore e il finanziatore.
Cerchiamo di capire come si è arrivati a questa conclusione, che avrà conseguenze di enorme rilievo per il pregresso: l'Iva non dovuta non è detraibile, e questo vale sia per la società di leasing che per l'utilizzatore che ha ricevuto le fatture dei canoni.
La Corte di Giustizia ha la funzione di assicurare l'interpretazione uniforme del diritto europeo, e pertanto le definizioni della direttiva in materia di imposta sul valore aggiunto non necessariamente coincidono con le definizioni nazionali. Per questa esigenza di uniformazione la Corte europea ha superato anche le poche definizioni nazionali richiamate dalla direttiva, tra cui quella relativa ai soggetti erogatori delle prestazioni sanitarie.
La sentenza del 27 giugno 2019, nella causa C-597/17 promossa dal sindacato belga dei chiropratici, ha stabilito che l'articolo 132, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 2006/112/CE non riserva l'applicazione dell'esenzione in esso prevista alle prestazioni effettuate da coloro che esercitano una professione medica o paramedica regolamentata dalla legislazione dello Stato membro interessato. Qui era il risultato di una interpretazione, che poteva dar luogo anche a conclusioni diverse, mentre il tema del lease-back pone in evidenza la radicale difformità della nostra norma rispetto alla legge europea.
Torniamo alla seconda direttiva, quella che noi abbiamo recepito con il Dpr 633/1972. Le definizioni oggettive fondamentali sono quelle di "cessione di beni" e "prestazioni di servizi", qualificate nella direttiva in modo molto semplice rispettivamente come:
- trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario;
- ogni operazione che non costituisce cessione di un bene.
Queste nozioni hanno attraversato la sesta direttiva e sono presenti in modo identico nella 2006/112/CE vigente (articoli 14 e 24). Nel Dpr 633 le cessioni sono invece individuate nel trasferimento della proprietà o di altro diritto reale, mentre la nozione di prestazioni individua una serie di contratti, tra cui quelli d'opera o di appalto, che dovrebbero essere invece qualificati come cessioni quando hanno per oggetto la produzione di un bene. Qualifica che riprendono quando il bene prodotto deve attraversare il confine, applicandosi le regole della direttiva e non quelle nazionali.
Tornando al lease-back la Corte europea aveva puntualizzato al considerando 34 che la nozione di «cessione di beni» si riferisce non al trasferimento di proprietà nelle forme previste dal diritto nazionale vigente, bensì a qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l'altra parte a disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario. E (considerando n. 40) le operazioni di sale and lease back formano operazioni puramente finanziarie al fine di aumentare la liquidità del soggetto: gli immobili sono rimasti in possesso di quest'ultimo, che li ha utilizzati interrottamente e in maniera duratura per le esigenze delle sue operazioni soggette ad imposta.
Questa distonia – legge italiana non conforme alla direttiva e giudici che decidono in base alla norma europea – torna periodicamente. Un caso emblematico riguarda gli eredi dei lavoratori autonomi, che l'articolo 35-bis, secondo comma, a differenza di quanto dispone per gli eredi dell'imprenditore, non obbliga alla fatturazione per le operazioni eseguite dal de cuius non fatturate né incassate in vita. Orbene l'agenzia delle Entrate, rifacendosi all'assenza di questa distinzione nella direttiva, esordisce con la risoluzione 34/E dell'11 marzo 2019 per unificare le due posizioni soggettive, anche in aderenza con la sentenza della Cassazione 8059 del 21 aprile 2016, pronunciata "in doverosa aderenza alla disciplina Europea".
Potremmo continuare con molti altri aspetti anomali della nostra legge Iva, uno per tutti l'articolo 26 sulle note di variazione, autentico mostro giuridico che qualifica le variazioni in diminuzione nella "detrazione ai sensi dell'articolo 19", solo perché nei primi due anni dell'Iva la loro annotazione era vincolante nel registro degli acquisti.
La necessità di allineare la legge italiana al contenuto della direttiva deriva anche dal fondamentale principio dell'affidamento: non si può punire chi si adegua alla normativa vigente, che viene poi smontata dalla giurisprudenza che fa riferimento alle disposizioni sovraordinate.
Questo articolo fa parte del nuovo Modulo24 Iva del Gruppo 24 Ore. Leggi gli altri articoli degli autori del Comitato scientifico e scopri i dettagli di Modulo24