Controlli e liti

La Corte limita gli effetti penali delle presunzioni tributarie

di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Le contestazioni basate su presunzioni tributarie possono essere rilevanti ai fini penali solo per l’eventuale sequestro ma non per la successiva condanna. È questa la posizione consolidata della giurisprudenza di legittimità rispetto all’utilizzo delle presunzioni fiscali in ambito penale (tra le ultime, le sentenze 26274, 23182 e 22002 del 2018).

Negli accertamenti tributari gran parte delle rettifiche sono fondate su presunzioni: si pensi agli accertamenti bancari, agli accertamenti induttivi sulle medie di ricarico riscontrate in sede di verifica, alle contestazioni Iva in presenza di fatture soggettivamente inesistenti per assenza di buona fede da parte dell’acquirente. Si tratta di casi in cui la pretesa erariale non deriva da prove concrete di evasione, ma da presunzioni legali e talvolta anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

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In queste frequenti ipotesi i verificatori, una volta effettuate le contestazioni (derivanti appunto dall’applicazione delle presunzioni) e rilevato il superamento della soglia di punibilità, segnalano il tutto alla procura della Repubblica. Il Pm successivamente può anche richiedere al Gip il sequestro per importi equivalenti a quelli evasi in previsione di una futura confisca nel caso di condanna

Da evidenziare che spesso la Guardia di finanza già nella comunicazione della notizia di reato sollecita il Pm affinchè richieda la misura cautelare

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le presunzioni fiscali non possono da sole essere utilizzate ai fini della quantificazione della imposta evasa penalmente rilevante.

A tale principio fa eccezione il sequestro preventivo diretto o per equivalente attraverso il quale sottoponendo a vincolo determinati beni di valore equivalente ovvero il profitto diretto dell’evasione si assicura la futura esecuzione della confisca in caso di condanna dell’indagato.

In sostanza per la Corte di cassazione le presunzioni vigenti in campo fiscale, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati tributari, rappresentano esclusivamente dati di fatto liberamente valutabili dal giudice penale insieme ad altri riscontri. Tali risultanze non possono quindi rappresentare da sole un elemento di prova idoneo a sorreggere l’accusa: il giudice penale ha pertanto il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa mediante una verifica che deve privilegiare il dato fattuale rispetto ai criteri formali che caratterizzano l’ordinamento fiscale.

L’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude, in sostanza, che il giudice possa avvalersi degli stessi elementi posti a base della contestazione fiscale, a condizione però che siano assunti non con efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione probatoria. Le presunzioni hanno così il valore di un indizio e, per assurgere a prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni gravi, precise e concordanti.

Nell’ordinamento esiste così il “doppio binario”:

nel processo penale, l’onere della prova è sempre a carico dell’accusa e non è ammessa un’inversione probatoria attraverso l’utilizzo di presunzioni. Deve essere effettivamente provata la sussistenza del reato, sia circa la commissione del fatto materiale, sia per quanto concerne l’elemento psicologico (nei reati tributari in genere costituito dal dolo specifico);

nel giudizio tributario, l’elemento soggettivo è irrilevante per la configurazione di un’evasione e se il contribuente non fornisce la prova contraria a quella meramente presuntiva viene comunque ritenuto responsabile della violazione contestata.

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