La geometria variabile dell’erario continentale
Il nuovo fronte Ikea, aperto ieri a Bruxelles dalla Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager, pone ancora una volta il dito sul nervo scoperto della Comunità europea.
In un ordine cronologico neutro, i casi Starbucks, Fiat, Intel, Apple, Amazon - tutti sfociati in procedure di recupero di tassazione/aiuti indebiti, alcuni migrati anche in contenziosi giudiziari - sono lì a ricordarci che il principale concorrente (sleale?) dell’Europa è l’Europa stessa.
È infatti il caso di osservare, ancora una volta, che oggi come ieri non siano mai di fronte a ipotesi di evasione fiscale tout court, ma al contrario ogni procedura va a impattare - e tenta di smontare - accordi perfettamente leciti, almeno sotto il punto di vista delle due parti contraenti dirette, e all’altezza di tempo della loro stipulazione.
Se questi tax ruling finiti via via sotto la lente dell’antitrust continentale siano o meno compatibili con la legge europea, è un giudizio che spetta all’autorità politica/amministrativa/giudiziaria competente. Quello che non può passare sotto silenzio a qualsiasi osservatore neutro e imparziale è però l’incoerenza “sistematica” dell’idea di Europa, di “questa “ Europa almeno.
È ancora ammissibile la possibilità di avere 27 sistemi fiscali differenti nello spazio Ue, ognuno con proprie leggi, proprie regole, con proprie aliquote e con propri uffici che trattano la materia come fosse questione nazionale? L’esperienza e la storia recente dimostrano che questo modello ha perpetuato l’esistenza di paradisi “reali” - con l’aggravante dello spazio allargato Ue - e ne ha addirittura creati di nuovi, basti pensare alla Gran Bretagna e alle sue meravigliose isole, ma anche ai granducati, ai principati, a Malta e ai Paesi Bassi, alle microrepubbliche e alle città-stato, per non parlare dei paradisi alpini che sono molti e spesso insospettabili.
Il problema oggi non è tanto “come uscire” da questo circolo vizioso, perché è evidente che la strada è obbligata ed è una sola, armonizzare il diritto fiscale comunitario e la sua giurisdizione. Il tema è invece “se” e “quando” ci saranno le condizioni per l’inversione di tendenza, visto che ad oggi nessuno dei Paesi che vivono di dumping fiscale (alle e sulle spalle dei loro “partner” continentali) ha la benchè minima intenzione di cambiare rotta.
Un esempio? La vicenda della web tax europea è emblematica, con la motrice dei G4 (Italia, Francia, Germania e Spagna) che cerca di dettare un’agenda di politica impositiva, ma trova subito sulla sua strada il “niet” dei soliti buchi grigi della fiscalità comunitaria. Perchè la risalita al primum mobile delle cause dell’impasse europea di fronte a un mondo che sta cambiando a velocità digitale (e talvolta anche a ciclo inverso, leggasi riforma fiscale di Trump) porta ancora una volta al problema dei problemi: l’unanimità del voto richiesta dalle regole di Bruxelles per la riforma fiscale. Come si può chiedere a paesi che fanno della competizione fiscale intra-Ue - dumping secondo un diverso punto di vista - di allinearsi a regole “fair” che premino la vera competizione (che, correttamente intesa, dovrebbe essere quella verso l’esterno dei confini Ue, e non viceversa)?
Senza uno scatto di trasparenza vera, convinta e multilaterale, l’Europa del fisco è destinata di rimanere quel campo di battaglia fratricida che le indagini dell’antitrust stanno svelando. Ogni volta ci toccherà di veder scoperchiare tax ruling perfettamente leciti (forse, ma comunque mai resi pubblici all’origine, quasi tutti invece protetti da una clausola di segretezza “industriale”) e di assistere poi all’innesco mediatico e poi giudiziario dell’ennesima questione di erario a geometria variabile. Un lusso, e una sottile ipocrisia, che probabilmente l’Europa non potrà consentirsi ancora a lungo.