La perizia di parte può incidere sulla decisione del giudice tributario
Una perizia di parte, tanto più nel processo tributario nel quale esiste un maggiore spazio per le prove atipiche, può costituire idonea fonte di convincimento del giudice e che può porla a fondamento della decisione a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga convincente. Altresì, costi regolarmente fatturati e pagati non possono essere disconosciuti come inesistenti per il sol fatto che un fornitore attesti di non aver eseguito prestazioni nei confronti dell’azienda accertata. Sono queste le conclusioni a cui è giunta la Cassazione con l’ordinanza 31274/2018, depositata in data 4 dicembre ( clicca qui per consultarla ).
Un’azienda agricola aveva impugnato due avvisi di accertamento con i quali le Entrate avevano contestato mancata fatturazione di vendite e indebita detrazione di costi, ma si era vista respingere le proprie ragioni in primo grado. A quel punto, la contribuente proponeva appello e la Ctr Lazio lo accoglieva in ragione del fatto che l’accertamento fondato su induzioni eseguito dall’Ufficio, in base all’articolo 39, comma 1, del Dpr 600/1973, è basato su presunzioni semplici che possono essere vinte in base ai documenti prodotti dal contribuente, fra cui una relazione stragiudiziale, asseverata con giuramento, in quel caso redatta da un agronomo.
Per i giudici di legittimità, che hanno confermato la decisione d’appello, la perizia versata in atti dal contribuente ha consentito di ritenere congruo il valore della produzione indicato nelle scritture contabili, dato che essa valorizzava anche i dati statistici realizzati dall’ente territoriale e che individuavano per le annualità in contestazione le produzioni medie di grano duro per ettaro e metteva in risalto, tra l’altro, anche la porosità del terreno che influiva negativamente sulla produttività: per la Suprema corte, quindi, in tema di rettifiche presuntive la perizia effettuata da un consulente tecnico di parte si trova nella medesima posizione delle opinioni espresse dai verificatori che possono ben essere confutate sul piano sostanziale, tramite una ricostruzione di una diversa realtà.
Interessante, infine, evidenziare come l’Ufficio avesse disconosciuto la deducibilità di costi per servizi, pari a 20mila euro, ancorché la società avesse prodotto in atti le fatture di un fornitore regolarmente quietanzate tramite assegni bancari, di talché, per il contribuente, non vi era ragione di dubitare della loro effettività.
Per l’Ufficio, invece, tali costi dovevano considerarsi inesistenti in quanto dal Pvc si evinceva che il titolare della ditta fornitrice aveva riferito di non conoscere l’azienda accertata e di non essersi mai recato presso la propria sede per effettuare prestazioni lavorative.
La Cassazione, invece, ha ritenuto che l’impresa verificata avesse effettivamente sostenuto i costi dedotti in ragione dell’esistenza di fatture cui corrispondevano pagamenti eseguiti, ma soprattutto perché le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza da chi aveva emesso le fatture sono da ritenersi «prive di valenza decisiva, tenuto conto che esse ben avrebbero potuto essere rese al fine di giustificare l’omessa annotazione dei documenti fiscali nella contabilità di quell’azienda».
Cassazione, ordinanza 31274/2018