Le troppe contraddizioni sulla riduzione del prelievo fiscale sul reddito d’impresa
Dal 2017 l’aliquota d’imposta per le società ha conosciuto un’apprezzabile riduzione: dal 27,5 al 24 per cento. È solo l’ultimo intervento di riallineamento del prelievo sulle imprese, ridotto, in termini nominali, di una percentuale a due cifre nell’arco di 15 anni. All’inizio del millennio, le società erano costrette a lasciare all’Erario oltre il 41% dei loro utili, tra Irpeg e Irap. Oggi, “solo” - si fa per dire – il 28% circa.
Non è, però, il caso di abbandonarsi ad eccessivi entusiasmi. Quello italiano è pur sempre un trend di riduzione d’aliquota che accomuna tutti i principali Paesi Ocse, compresi i più rilevanti partner europei, quali Francia e Germania. Anzi, il Bel Paese rimane ancora distante, in termini di attrattività fiscale per le imprese, da realtà pure geograficamente assai vicine: non occorrono lunghi viaggi verso mete esotiche o verso gli States di Donald Trump, se dovesse mantenere la promessa elettorale della riduzione di aliquota al 15 per cento, ma solo poche ore d’aereo, per scoprire i vantaggi, in termini di tax rate societario, del Regno Unito, dell’Irlanda, di vari Paesi dell’Europa dell’Est.
Si potrebbe obiettare che, in Italia, l’imposizione effettiva sulle società è, in realtà, potenzialmente ben più bassa del 27,9 per cento, a causa del possibile accesso, tra gli altri, al regime del patent box, ai benefici Ace, al “nuovo” iper- e super-ammortamento. Tutto vero, se non fosse per la solita “storia dei dettagli”.
Si pensi al patent box, un regime di incentivo agli intangible, che costituisce non certo una peculiarità italiana. Anzi, il nostro Paese lo ha copiato - peraltro con deprecabile ritardo - da altri Stati, Regno Unito in testa. Nella impostazione originaria, l’Italia aveva meritoriamente scelto di discostarsi dalla prassi Ocse, estendendo i benefici del patent box anche ai marchi, pure in considerazione delle specificità del nostro sistema economico-produttivo, fortemente radicato in settori caratterizzati dall’elevata rilevanza del brand. Con la recente approvazione della manovrina fiscale, il legislatore è però tornato indietro sul tema dei marchi, rendendo il patent box nostrano anche meno competitivo di quello offerto da altri Paesi. E ciò anche in considerazione dell’approccio restrittivo alla quantificazione del reddito agevolato, imposto dalla scarsa copertura finanziaria dell’incentivo in commento.
Analoghe perplessità solleva l’analisi dell’Ace. Tale meccanismo, introdotto per incentivare il ricorso al capitale proprio, tramite una deduzione analoga a quella riconosciuta in caso di capitale di credito, ha visto fortemente depotenziato, nel tempo, il suo impatto. Dal 2017 la deduzione scenderà all’1,6 per cento degli incrementi annui di capitale proprio e dal 2018 all’1,5%: una percentuale indubbiamente assai ridotta, sia in valore assoluto, che per confronto con i tassi attualmente applicati sui finanziamenti bancari, nonostante il drastico calo degli ultimi tempi.
Non solo. Sollevano forti perplessità le modalità applicative dell’Ace nel caso di capitali esteri. Complice un’interpretazione di prassi incomprensibilmente restrittiva, è concreto il rischio di una disapplicazione integrale del beneficio tutte le volte - peraltro assai frequenti - in cui è difficile risalire alla residenza di ogni singolo socio di ultima istanza, anche minoritario, persino quelli con percentuali dello “zero virgola”. Ciò è tipico delle società che gestiscono capitali diffusi, nonché dei fondi di investimento internazionale: in tali casi, l’impossibilità pratica di risalire a tutti gli investitori interessati comporterebbe, secondo l’agenzia delle Entrate, l’automatica disapplicazione integrale della deduzione Ace. Un’interpretazione, questa, non solo disallineata rispetto alla lettera e alla ratio delle disposizioni normative, ma anche idonea a disincentivare non poco l’afflusso di capitali esteri. Un esito che un sistema impositivo ben congegnato dovrebbe, viceversa, voler evitare.
Più complesso è il tema del super e iper-ammortamento. Il primo, di più ampia applicazione, costituisce un meritorio strumento di incentivo all’imprenditoria, tuttavia inidoneo ex se ad allargare significativamente il gap tra tassazione nominale ed effettiva, anche in considerazione della necessità di spalmarne il beneficio lungo l’intera vita utile dei beni interessati. Quanto all’iper-ammortamento, seppur idealmente più efficace, si presenta come un regime di tale complessità applicativa, da risolversi, nei fatti, in una misura di nicchia, attrattiva soprattutto per determinati soggetti e settori produttivi.
Insomma, nonostante la riduzione dell’aliquota Ires, l’Italia rimane indietro sul versante della attrattività per le società. Le stesse misure che dovrebbero, in via teorica, contribuire ad abbassare il tax rate effettivo al di sotto di quello nominale e accrescere la nostra competitività, si rivelano, per molti aspetti, sostanzialmente inefficaci, come è tipico degli interventi di facciata. I tempi sono ormai maturi per ripensare realmente l’entità del carico impositivo sulle imprese, prima che sia troppo tardi e si debba assistere impotenti alla migrazione societaria verso Stati più attrattivi, per entità delle aliquote e degli adempimenti fiscali.