Per il reato non basta l’accertamento induttivo
Un accertamento induttivo può sicuramente rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire se vi sia stata evasione fiscale e se questa abbia superato la soglia di punibilità prevista dall’articolo 5 del Dlgs 74/2000 ma, in sede penal-tributaria, non è sufficiente a costituire piena prova della sussistenza dell’illecito. La rilevanza penale dell’imposta evasa deve essere, infatti, determinata attraverso anche altre valutazioni divergenti da quelle eventualmente effettuate in ambito tributario. A tali conclusioni è giunto il Tribunale di Sulmona, con la sentenza 172/2018 che ha definito il valore probatorio dell’accertamento induttivo in sede di processo penale.
Nel caso esaminato, un imprenditore individuale ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, all’interno della quale avrebbe dovuto essere dichiarata un’imposta di108mila euro (importo superiore alla soglia di 50mila euro prevista dalla fattispecie incriminatrice), cosicché il Pm ha chiesto la condanna dello stesso a un anno e 6 mesi di reclusione. Nell’ambito del procedimento, il funzionario delle Entrate ha riferito che l’accertamento effettuato nei confronti dell’imputato era di tipo induttivo e che, per il calcolo dell’imposta evasa, dalla somma dei ricavi indicati nelle fatture emesse era stato dedotto solo un importo forfetario del 10% quali spese presunte.
Per i giudici abruzzesi, però, tale modalità di determinazione dell’evasione fiscale non può costituire un valido supporto probatorio per dichiarare la responsabilità penale dell’imprenditore e, in conformità a quanto statuito dalla richiamata sentenza 37335/2014 della Suprema corte, è stato ribadito il preciso confine esistente tra l’onere della prova in ambito tributario e in quello penale, poiché in quest’ultima sede il giudice ha il compito di procedere alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa attraverso nuove verifiche e valutazioni specifiche anche diverse da quelle già effettuate in ambito tributario.
Nello specifico, poiché dalle fatture emesse emergeva che tra i fattori produttivi dell’attività accertata vi era un impiego di manodopera e di materie prime che avevano un’incidenza di costo rilevante, “certamente” superiore al 10% già riconosciuto per costi presunti in sede tributaria, alla ricostruzione dell’Ufficio non veniva riconosciuta la necessaria precisione per poter confortare e corroborare una sentenza di condanna dell’imputato. In altri termini, il giudice penale ha ritenuto di non doversi apoditticamente riportare ai contenuti di un accertamento induttivo fondato solo su presunzioni tributarie che sono sempre da verificare nella loro idoneità a rappresentare certezza.
Nonostante, peraltro, dalle risultanze dibattimentali emerga anche come l’imputato non avesse neanche particolarmente collaborato per favorire le indagini, in sede penale non possono comunque trovare applicazione quelle presunzioni legali che, al contrario, possono invece risultare criterio valido in sede tributaria per accertare redditi in via induttiva anche per mancati riscontri collaborativi del contribuente.
Rilevando, allora, la carenza di elementi probatori a sostegno della tesi dell’accusa, l’imprenditore è stato assolto per insussistenza del fatto, mancando la prova di tutti gli elementi costitutivi del reato.