Contabilità

Terzo settore, lo scopo e l’attività dell’ente vanno indicati nello statuto

di Angelo Busani

La nuova normativa sul terzo settore concerne non tutto il novero degli enti non societari (essendo enti del terzo settore solo quelli che perseguono le finalità «di interesse generale» sopra menzionate) ma esclusivamente:

le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso;

le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.

Evidentemente, queste finalità dovranno essere esplicitate nella parte dello statuto di questi enti che si occupano dello scopo e dell’oggetto dell’ente, vale a dire la descrizione dell’attività che l’ente si propone di svolgere.

L’atto costitutivo deve indicare la denominazione dell’ente (la denominazione, in qualunque modo formata, deve contenere l’indicazione di “ente del terzo settore” o l’acronimo Ets) e deve esplicitare:

■l’assenza di scopo di lucro;

■l’ubicazione della sede legale;

■il patrimonio iniziale ai fini dell’eventuale riconoscimento della personalità giuridica;

■le norme sull’ordinamento, l’amministrazione e la rappresentanza dell’ente;

■i diritti e gli obblighi degli associati;

■i requisiti per l’ammissione di nuovi associati e la relativa procedura;

■la durata dell’ente (se prevista);

■la nomina dei primi componenti degli organi sociali e del soggetto eventualmente incaricato della revisione legale dei conti;

■le norme sulla devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento o di estinzione.

È importante notare che la legge impone l’ammissione di nuovi associati secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l’attività di interesse generale svolta dall’ente: in altre parole, questi enti dovranno consentire l’ingresso a chiunque lo richieda e che, obbligandosi a rispettare lo statuto associativo, professi interesse alle finalità dell’ente e al raggiungimento degli scopi che esso si propone di perseguire.

Va comunque sottolineato che la prima lettura del Codice del terzo settore effettuata da parte di un operatore professionale che si occupi di governance degli enti diversi dalle società (e, quindi, di scrivere le norme statutarie che ne disciplinino il funzionamento) sollecita impressioni contrastanti.

Se il Codice ha, da un lato, l’enorme e indubbio merito di dare disciplina e impulso a quelli che vengono denominati gli enti del terzo settore (i quali, in sostanza sono quelli che esercitano «attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale»), d’altro lato perde l’occasione di riformare quei pochi articoli del Libro primo del Codice civile che, dal 1942 ad oggi, hanno disciplinato e disciplinano gli enti no profit nel nostro ordinamento e che rimarranno a disciplinare tutto il no profit che non sia qualificabile come terzo settore.

Quelle del Codice civile sono norme che, scritte negli ultimi anni del regime fascista e completamente superate non fosse altro per il fatto del tempo trascorso da quando furono emanate, fanno acqua da tutte le parti e sono completamente inadeguate a regolamentare uno scenario sociale radicalmente mutato rispetto a quello nel quale esse videro la luce.

Insomma, si poteva forse avere l’auspicio che il Codice del terzo settore, oltre a disciplinare quella gran parte del mondo no profit che è animata da «finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale», “sistemasse” anche quella parte di normativa del no profit che non rientra nel concetto di terzo settore.

Invece, la normativa “tradizionale” rimane intatta, inadeguata e asfittica e viene affiancata e sovrastata dalla ponderosa nuova normativa del terzo settore. In sostanza, per scendere a un esempio, banale ma significativo, invece di unificare tutto il no profit in un unico pubblico Registro, ora avremo il nuovo Registro unico nazionale del terzo settore a fianco dei registri delle persone giuridiche tenuti da ogni singola Prefettura e dei registri delle persone giuridiche tenuti da ogni singola Regione. Uno scenario che da sé evoca disorganicità, assenza di visione d’insieme, carenza di mentalità semplificativa.

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