Un finale fra «mance» e benefici a chi investe
A qualche giorno dal voto finale arrivato al Senato, appare ancora più evidente come la legge di Bilancio abbia scontato un doppio e prevedibile handicap. Da un lato, quello di ritrovarsi a essere l’ultimo provvedimento (economico) della legislatura e quindi anche l’“ultimo treno” sul quale far salire disposizioni che in una fase di normalità sarebbero state destinate altrove (vedi decreto Milleproroghe, ma non solo); e dall’altro, quello di dover subire la pressione di molti parlamentari che, in vista del “rompete le righe”, si giocavano l’ultima chance per il sostegno di interessi circoscritti e particolaristici.
Questo spiega, ma non giustifica, una manovra finanziaria uscita dal Parlamento nel solco dei vecchi “decreti omnibus” e che entra di diritto nel Guinness delle leggi più complicate, più disomogenee (un po’ nella natura delle leggi finanziarie) e di più difficile lettura, come testimonia anche il poco invidiabile primato del maggior numero di commi in un solo articolo. Insomma, guardando al testo in sé e alla tecnica legislativa, il giudizio non può che essere negativo. Ovviamente, non è altrettanto agevole valutare la “qualità dei contenuti” di un provvedimento di questa ampiezza.
Il governo – come ribadito fin dall’estate scorsa sia dal presidente del Consiglio sia dal ministro dell’Economia - ha puntato su una manovra snella. Una manovra che partiva dalla necessità di azzerare i 15,7 miliardi di aumenti dell’Iva per la clausola di salvaguardia (tema lasciato in eredità al prossimo esecutivo). Con poche ulteriori risorse da mettere in campo, il governo ha così scelto di scommettere tutto su poche parole d’ordine: il rilancio degli investimenti (pubblici e privati); le politiche occupazionali per i giovani; il potenziamento degli strumenti a sostegno delle famiglie in difficoltà; le risorse per il rinnovo del contratto del pubblico impiego.
Quel che è successo durante l’iter parlamentare è chiaro a tutti. E la legge di Bilancio è arrivata traguardo appesantita da un’infinità di misure, mini e micro-mance sulla cui necessità e utilità ci sarebbe molto da dire.
Va però considerato che si correvano rischi ben più gravi. In questo senso, si deve dare atto al governo sia di aver mantenuto la rotta sui propri obiettivi iniziali sia di aver disinnescato alcune pericolose mine - valga per tutte il caso delle pensioni - che avrebbero radicalmente compromesso lo scenario di finanza pubblica.
Sicuramente gli obiettivi iniziali del governo si possono considerare raggiunti. Come sempre si poteva fare di più e meglio. Si prendano, ad esempio, le misure fiscali della manovra. È vero che, come ha scritto in un tweet il premier Gentiloni, nella legge di Bilancio non ci sono nuove tasse (esclusa la web tax, di cui diremo poi), ma è altrettanto vero che le “entrate aggiuntive” della manovra - che sono comunque tasse, anche se tecnicamente non “nuove tasse” - pesano per oltre 5,5 miliardi.
Partiamo dalle misure in positivo. La sensazione è che arrivi una nuova spinta importante agli investimenti. Vanno in questa direzione il prolungamento, di fatto a giugno 2019, di iper ammortamento e super ammortamento (seppur ridotto al 130%). Nel primo caso sembra di percepire una più solida connessione con gli investimenti legati alle modalità produttive e industriali di nuova generazione, che rappresentano il cuore di Industria 4.0, con uno sforzo finanziario che nei tre anni vale 2,6 miliardi (compresi 1,3 per il super ammortamento). Bene anche sia il bonus per la formazione in azienda legata a Industria 4.0 (altri 250 milioni, con qualche criticità da sciogliere sulle modalità di accesso al beneficio) sia il potenziamento del credito di imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno per l’acquisto di beni strumentali nuovi (300 milioni in due anni, che portano complessivamente a 1,6 miliardi le autorizzazioni di spesa per 2018 e 2019). È interessante notare che per gli investimenti anche sul versante pubblico qualcosa pare cominciare a muoversi: per gli enti locali, arrivano 200 milioni in più da destinare a investimenti e oltre un miliardo (in più anni) per la messa in sicurezza del territorio e per il recupero delle aree degradate.
Un po’ a sorpresa, durante il passaggio alla Camera la manovra si è arricchita di un paio di disposizioni molto tecniche che vanno certamente nella direzione di creare un contesto più favorevole alle imprese che operano sui mercati globali, sia con l’approdo a un sistema di tassazione più equo dei dividendi provenienti da paesi entrati poi nella lista dei paesi a fiscalità privilegiata sia prevedendo la riduzione al 50% della quota di imponibilità dei dividendi provenienti da controllate estere in paesi a fiscalità privilegiata, laddove si sia dimostrato di svolgere un’effettiva attività in quel territorio.
Tutto bene. Ma c’è anche un rovescio della medaglia fatto di svariate novità fiscali che sembrano purtroppo contraddire lo spirito di altre disposizioni. Il rinvio di un anno dell’Iri: va bene che lo slittamento dell’imposta sul reddito imprenditoriale fa risparmiare alle casse statali circa 1,9 miliardi nel 2018, ma in questo modo si rischia di compromettere definitivamente la credibilità del sistema fiscale, che promette e non sa mai mantenere i propri impegni. La deducibilità degli interessi passivi: vengono penalizzate (retroattivamente) le imprese che hanno partecipazioni all’estero, ovvero quelle che per far fronte alla crisi hanno avviato attività all’estero, acquisito partecipazioni oltreconfine. Anche qui è una questione di fiducia, ma anche di miopia verso chi ha saputo scommettere sull’internazionalizzazione. La detrazione Iva: le imprese e i professionisti l’hanno detto in tutti modi. La riduzione a quattro mesi del termine per esercitare il diritto alla detrazione Iva rischia di vanificare questo diritto, con perdite milionarie per molte imprese, specie le più grandi. E in più, non bisogna rassegnarsi all’idea che le imprese debbano essere considerate la banca che presta soldi (Iva) allo Stato. Il regime per cassa: è un peccato che non si sia trovata alcuna soluzione per consentire anche alle piccole imprese che intendono optare per il regime semplificato per cassa di poter riportare le perdite. Stando così le cose, non è consentito far transitare le perdite da un anno all’altro, il che rende questo regime molto meno vantaggioso. Altra promessa non mantenuta.
Infine, la “nuova tassa”: la web tax. Diciamolo: abbiamo assistito a uno spettacolo un po’ surreale nel passaggio del testo tra Senato e Camera, con Palazzo Madama che si è visto smontare il proprio articolato (di certo non perfetto), con un nuovo sistema che andrà valutato alla prova dei fatti. La sensazione degli addetti ai lavori è che la web tax nel testo ora approvato finisca per colpire le imprese residenti, con grande gioia delle multinazionali del web. Vedremo quel che accadrà. Per fortuna, come malignamente sussurra qualcuno, c’è anche una buona notizia: la nuova web tax partirà solo tra 12 mesi, nel gennaio 2019. Ovvero, ci sarà almeno tempo per sistemare le cose.