Diritto

Aumenti di capitale semplificati ma la norma è solo temporanea

L'alleggerimento delle procedure solo fino al 30 aprile 2021. Favoriti gli apporti in natura, termini ridotti per convocare le assemblee

di Daniele U. Santosuosso

Il decreto Semplificazioni (Dl 76/20), secondo quanto annunciato dal Governo, avrebbe dovuto contenere una miniriforma capace di rendere più attraente il nostro diritto societario rispetto a quelli di altri Paesi.

L’intenzione è senza dubbio apprezzabile, soprattutto di fronte alla ormai preoccupante lista di (holding di) importanti gruppi italiani che spostano all’estero la sede legale, non solo in Olanda e non esclusivamente, come i più attenti osservatori hanno sottolineato, per ragioni fiscali: i capitali di controllo si affidano infatti a correnti precise, che si muovono (oltre che per trovare minore burocrazia, certezza del diritto e tempi di giustizia più rapidi) verso ordinamenti societari e finanziari semplici, coerenti, prevedibili e che li favoriscano nell’autonomia delle proprie scelte imprenditoriali (esemplare negli Usa lo Stato del Delaware, dove ha sede la maggior parte delle public companies, con sorprendenti ricadute in termini di Pil).

Tuttavia quanto decretato in materia (articolo 44, «Misure a favore degli aumenti di capitale») appare tardivo e soprattutto velleitario.

Il ritardo è fatalmente misurabile sia rispetto ai nostri concorrenti (in Germania per esempio norme simili sono state introdotte il 27 marzo; analogamente in Uk) sia di fronte alle esigenze delle imprese, in gravi difficoltà già dalla fine di marzo. L’intervento legislativo poi rappresenta solo un piccolissimo passo nella direzione di rendere più competitivo il nostro ordinamento.

La finalità delle nuove norme invero (peraltro transitorie, in vigore sino al 30 aprile 2021) è quella, in sintesi, di facilitare la capitalizzazione in equity delle società attraverso gli aumenti di capitale; un particolare favore si nota per gli aumenti di capitale in natura e (soprattutto per le società quotate) con esclusione del diritto di opzione (per esempio si potrà procedere con quorum agevolati anche in mancanza di espressa previsione statutaria e nei limiti del 20 – e non più del 10 - per cento del capitale sociale preesistente; e i termini di convocazione dell’assemblea sono ridotti alla metà).

In pratica si spingono gli imprenditori che temono la crisi a privilegiare, a ulteriori indebitamenti, forme di capitalizzazione segnatamente con beni diversi dal denaro e/o provenienti da terzi.

Può essere una delle soluzioni possibili per irrobustire la struttura finanziaria societaria, ma non l’unica e la preferibile, soprattutto per le società aperte al mercato con un capitale già in buona parte in mano a soggetti non riferibili al capitale di controllo: i soci di controllo si vedrebbero infatti impoveriti dei propri beni a favore delle società o diluiti nella propria partecipazione. E se proprio si volevano favorire gli aumenti di capitale per le quotate si sarebbe potuto “completare l’opera” con altri alleggerimenti (anche in termini di costi), rendendoli per esempio prospectus-free, come auspicato da Assonime e Confindustria, o esonerando in tutto o in parte dalle norme sulle offerte pubbliche obbligatorie.

Inoltre, la transitorietà delle norme pone seri interrogativi di fronte a esigenze obiettive di semplificazione: per esempio il dimezzamento dei termini per la convocazione dell’assemblea dovrebbe essere la normalità in considerazione dei mezzi di comunicazione attuali.

Certo, è questione tormentata quella di come rendere più “sexy” le norme giuridiche societarie e del mercato finanziario, ma ineludibile in un sistema che vede da almeno un ventennio gli Stati in crescente e “spietata” competizione tra loro (dal caso Centros del 1999 deciso dalla Corte Ue a favore della libertà di stabilimento nel senso della scelta dell’ordinamento societario di qualsiasi Stato dell’Unione, purchè non a discapito dei creditori).

Raggiungere l’obiettivo di rendere attraente un ordinamento giuridico in questi settori, si potrebbe ancora disquisire, sarebbe come trovare la formula segreta della Coca Cola, e non può essere raggiunto con norme emergenziali e transitorie: richiede un giusto mix di norme che tutelino due ordini di esigenze e correlativi interessi che sono contrapposti:

a) da un lato quello dei soggetti dotati di controllo imprenditoriale diciamo stabile e portatori di interessi a lungo termine (“soci imprenditori”: spesso, soprattutto in Italia, famiglie);

b) dall’altro quello dei soggetti cui non interessa il controllo ma un ritorno – nella maggior parte dei casi a breve termine – dell’investimento (“soci investitori o finanziatori”: strutturati per lo più come fondi, che tendono a investire dove ritengono che la governance prometta questi risultati). Va da sé che in un mercato finanziario maturo e funzionante gli uni sono essenziali agli altri; e gli eccessi e gli abusi di entrambi (esiste anche la cosiddetta minoranza prevaricatrice) devono essere prevenuti e sanzionati perché in effetti, far pendere troppo la bilancia può portare a risultati non sani e, per paradosso, persino letali: a un mercato di imprenditori senza investitori, o all’opposto, a un mercato di investitori senza imprenditori.

Ma il flusso di capitali di controllo verso l’estero è un dato di fatto e pone un tema di insoddisfacente riconoscimento alla “sovranità” degli stessi, che invece oltralpe è più garantita. È tempo di pensare a una revisione strutturale del diritto del mercato finanziario, lavorando su alcune ipotesi di lavoro. Tra esse da un lato una più oculata attuazione dei principi di engagement degli investitori, nel senso di un costante monitoraggio sull’operato delle società in cui investono e in particolare su alcuni temi critici di corporate governance (tra cui la remunerazione del top management, controllo sui rischi); ma dall’altro un maggior riconoscimento della libertà imprenditoriale e quindi dell’autonomia privata societaria, in linea con gli altri ordinamenti occidentali, che garantisca piena attuazione dei diritti e poteri societari delle maggioranze (principio fondante nelle società di capitali), in una logica di libertà e accountability invece che limitativa e impositiva (per legge), e con i giusti contrappesi (trasparenza e sanzioni ex post in caso di eccessi o abusi).

Da sempre si cercano soluzioni per attrarre investimenti stranieri. Adesso è urgente non perdere di vista un’altrettanto primaria necessità, quella di non far disamorare i nostri imprenditori. Dare loro fiducia può essere un buon punto di partenza.

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