Controlli e liti

Società di comodo, l’interpello è facoltativo

La sentenza 74/6/2021 della Ctr Lazio: il contribuente può dimostrare in giudizio le ragioni che hanno impedito di raggiungere i ricavi minimi

La presentazione dell’istanza di interpello non costituisce un obbligo per il contribuente che voglia fuoriuscire dalla normativa sulle società di comodo, potendo lo stesso dimostrare in giudizio le ragioni oggettive che hanno impedito il raggiungimento della soglia minima di ricavi prevista dalla legge. È il principio affermato dalla Ctr del Lazio con la sentenza 74/6/2021 (presidente Musumeci, relatore Caputi), che segna un nuovo punto a favore dei contribuenti sul tema in esame.

La normativa sulle società di comodo, introdotta dall’articolo 30 della legge 724/1994, ha lo scopo di disincentivare il ricorso del contribuente allo strumento societario laddove quest’ultimo venga utilizzato non per svolgere una “genuina” attività d’impresa ma per gestire il patrimonio sociale nell’interesse dei soci.

La normativa introduce una presunzione legale relativa, secondo cui si considerano di «comodo» le società che conseguono un livello di ricavi in misura inferiore a quello che sarebbe ragionevole attendersi dagli “asset” iscritti nell’attivo patrimoniale (test di operatività). In tali casi, le società subiscono alcune conseguenze pregiudizievoli, principalmente l’imputazione di un reddito minimo (determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti degli asset societari) e l’impossibilità di chiedere a rimborso, utilizzare in compensazione oppure cedere il credito Iva maturato.

Trattandosi di una presunzione legale relativa, il contribuente può dimostrare le ragioni di carattere oggettivo che non hanno consentito il raggiungimento dei ricavi minimi stabiliti dalla legge. Nella versione della norma vigente all’epoca dei fatti oggetto della pronuncia, era previsto che a tali fini il contribuente poteva presentare istanza di interpello alle Entrate prima della presentazione della dichiarazione dei redditi. L’Agenzia ha sempre interpretato la norma nel senso che l’interpello costituiva un obbligo per il contribuente che voleva dimostrare di non essere di «comodo» (in seguito la norma è stata modificata, introducendo espressamente la possibilità di disapplicare la normativa sulla base di un’«autovalutazione»).

Nella fattispecie oggetto della pronuncia in commento, il curatore di una società in fallimento chiede il rimborso di un credito Iva in relazione all’anno 2013. L’agenzia delle Entrate nega il rimborso, proprio sul presupposto che la società integra i requisiti per essere considerata di «comodo» e non ha presentato in via preventiva l’istanza di interpello ritenuta come obbligatoria.

Il fallimento della società impugna il diniego e ottiene ragione in appello. I giudici della Ctr affermano a chiare lettere che l’interpello previsto dalla norma pro tempore vigente costituisce una mera facoltà per il contribuente, da intendersi come strumento di semplificazione del proprio rapporto con il Fisco. Del resto, proseguono i giudici, già da alcuni anni la Cassazione ha affermato la facoltatività dell’interpello per ottenere la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo (tra le altre, Cassazione 16183/2014 e 7402/2019).

Su queste basi, la Ctr annulla il provvedimento di diniego e riconosce il diritto del fallimento al rimborso dell’imposta.

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