Diritto

Il curatore fallimentare deve bonificare i siti inquinati

Principio sancito dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 3/2021), che ha operato una riscrittura della formula “chi inquina paga”, recentemente ribadita dalla sentenza 1630/22

di Andrea Giordano

Il curatore fallimentare deve custodire l’ambiente. Questo è il principio sancito dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 3/2021), che ha operato una riscrittura della formula “chi inquina paga”, pure recentemente ribadita dalla sezione quinta del collegio (sentenza 1630/2022).

In quest’ultima pronuncia, si ricorda che gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino di fondi inquinati (articolo 192 del Codice dell’ambiente) gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione e si ribadisce che la responsabilità presuppone sempre l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta e il danno e che il sistema osta a responsabilità oggettive o di posizione.

Eppure, se il bene è del fallito, il curatore fallimentare risponde (e i creditori pagano) pur non avendo inquinato.

Secondo la plenaria (sentenza 3/2021), sarebbe “detentore” il soggetto in possesso dei rifiuti (articolo 3, paragrafo 1, punto 6, della direttiva 2008/98/Ce). Perché si abbia detenzione, basterebbe infatti la «sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come “amministrazione del patrimonio altrui”».

Stando all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva, i costi della gestione dei rifiuti verrebbero sostenuti dal produttore iniziale oppure dal detentore del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti.

La curatela fallimentare, siccome custode dei beni del fallito e quindi detentrice dei rifiuti, sarebbe, in ogni caso, onerata alla rimozione degli stessi.

L’inquinamento integrerebbe una diseconomia esterna prodotta dall’attività di impresa: si giustificherebbe, pertanto, che i costi di tale esternalità negativa vadano a gravare sulla massa dei creditori, che beneficiano degli utili del fallimento e, più in generale, degli effetti positivi dell’ufficio della curatela fallimentare.

La centralità dell’ambiente,
ai tempi della transizione ecologica, dà linfa all’impostazione del Consiglio
di Stato.

La legge costituzionale 1/2022 ha sussunto l’ambiente nell’olimpo dei principi fondamentali della Carta; ne ha ricordato la sacralità di interesse primario, che le generazioni, presenti e future, sono tenute a rispettare.

Il nuovo articolo 9 della Costituzione ora prevede che la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni; l’articolo 41 della Carta impedisce che l’iniziativa economica rechi danno all’ambiente, consentendo alla legge di indirizzare e coordinare la prima a fini
sociali e ambientali.

Sembra, dunque, acquisire rilievo la teorica della responsabilità sociale dell’impresa insolvente: alla considerazione dell’interesse creditorio dovrebbe aggiungersi la (rafforzata) valorizzazione di interessi-altri. La sostenibilità, promossa dal Green Deal e prima ancora dall’Agenda Onu 2030, è destinata a farsi strada nella politica aziendale, orientando l’attività dell’impresa anche nello stadio dell’insolvenza.

Se tutto ciò è vero, è pure innegabile che:

l’interesse creditorio orienta, a tutt’oggi, il diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza;

che gli interessi-altri non mutano la genetica delle procedure concorsuali;

che il credito ha, tanto quanto l’ambiente, dignità costituzionale.

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (decreto legislativo 14/2019) non ha minato la regola per cui il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l’attività di liquidazione risulta manifestamente non conveniente (articolo 104- ter, comma 8 della legge fallimentare; articolo 213, comma 2, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza).

Spetta ai creditori valutare la convenienza dell’acquisizione del bene: la stima di costi che sovrastino i possibili ricavi suggerisce il suo abbandono.

Valorizzare la regola, in nome di immutati principi del diritto concorsuale, e così consentire una way out per il fallimento, significa riaffermare che, anche nel periodo corrente:

non esistono valori tiranni né egemonie despotiche;

la Costituzione esorta all’integrazione reciproca degli interessi e il diritto dell’ambiente è, nella sua essenza, riconciliazione
e dialogo.

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