Controlli e liti

Economia digitale, per il nuovo regime collaborativo servirà uno sforzo da entrambe le parti

di Antonio Tomassini

La conversione della manovrina approvata definitivamente dal Senato introduce quella che impropriamente viene definita web tax transitoria, ovvero un procedimento opzionale di contradditorio preventivo tra imprese estere e Fisco volto all’accertamento dell’esistenza di una stabile organizzazione in Italia anche per i periodi di imposta passati, con la previsione di benefici premiali.

Nei fatti si tratta di una vera e propria auto-denuncia per certi versi simile alla voluntary disclosure, con la quale peraltro convive, ben potendo le società destinatarie della norma accedere - fin quando ovviamente la stessa sarà in vigore - alla procedura di voluntary disclosure, con vantaggi anche maggiori.

Non si tratta quindi di una nuova imposta o di una presunzione che opera ex se e si differenza pertanto dalle altre proposte di legge in discussione, tutte peraltro contrarie, come più volte evidenziato, alle convenzioni internazionali.
Quella individuata dalla manovra è una procedura che si applica alle società estere appartenenti a gruppi multinazionali con un fatturato complessivo superiore a 1 miliardo di euro e che realizzano vendite in Italia, per più di 50 milioni, «avvalendosi del supporto» di altre società o entità italiane appartenenti al medesimo gruppo. Si prevede nei fatti che tali soggetti possano accedere ad una forma di “interpello qualificatorio” ex post (quelli a regime, previsti dall’articolo 11 della legge 212/2000 e dall’articolo 31-bis, Dpr 600/1973, prevedono che la valutazione dell’esistenza della branch sia preventiva), in ordine alla sussistenza di una stabile organizzazione in Italia. Invero anche qui la combinazione (utilizzando gli strumenti già esistenti) di interpello e ravvedimento operoso potrebbe già portare a risultati analoghi.

La società estera che ravvisi il rischio di avere una stabile organizzazione in Italia, a seguito dell’istanza, viene invitata dall’Agenzia - laddove quest’ultima, come è probabile, ritenga sussistente una stabile organizzazione - a definire in contraddittorio l’imponibile per gli anni pregressi, ottenendo la riduzione alla metà delle sanzioni applicabili per l’ipotesi di accertamento con adesione (quindi non più 1/3 ma 1/6 dei minimi edittali) e l’esclusione della punibilità per il reato di omessa dichiarazione (una volta estinto tutto il debito fiscale, comprese le sanzioni).

Se il contribuente rifiuta l’accordo, o non versa il quantum concordato, l’agenzia delle Entrate procederà ad emettere gli avvisi di accertamento, anche in deroga ai termini di decadenza previsti dalla legge (si introduce di fatto una sanzione indiretta, senza nemmeno prevedere un limite temporale circa la possibilità di andare indietro negli anni).

Si tratta di una disposizione che non risolve i problemi della tassazione della digital economy ed il cui successo (stimato dal governo nella ambiziosa cifra di 1 miliardo) è peraltro assai dubbio. Innanzi tutto in quanto comporta l’assunzione di una responsabilità piuttosto forte, ovvero l’ammissione di avere un rilevantissimo “problema” in Italia. Lascia poi perplessi il riferimento al ’supporto’ fornito dalle società del gruppo italiane alle vendite realizzate in Italia dal soggetto estero. Il fatto di avere una società in Italia, per la prassi Ocse, non comporta automaticamente l’esistenza di una stabile organizzazione. L’istanza insomma mina al cuore il business model dei gruppi e prima di presentarla si rifletterà attentamente. Infine le sanzioni ridotte (solo) alla metà. In un sistema afflittivo come il nostro si tratterebbe comunque di somme rilevanti. Non si comprende infine lo sbarramento alle società con fatturato superiore al miliardo di euro. Forse per il collegamento con la cooperative compliance e l’opportunità (senz’altro interessante) di accedervi, ma ciò non toglie che sia un limite discriminatorio.

L’ambiente normativo per risolvere le tematiche della tassazione dell’economia digitale non può essere domestico e non può passare da iniziative tipo questa.
Il terreno su cui innestare interventi strutturali è quello delle convenzioni, ed oggi in particolare (nonostante le possibilità di riserva ivi previste e la mancata sottoscrizione degli Usa facciano riflettere sullo strumento) può essere quello della Convenzione Multilaterale elaborata dall’Ocse per il recepimento delle misure per la prevenzione delle pratiche di erosione della base imponibile e dislocazione dei profitti poste in essere dalle imprese multinazionali.
In questa sede potrebbero studiarsi quelle modifiche al concetto di stabile organizzazione da più parti invocate.

Nell’attesa l’alternativa potrebbe essere pensare ad una imposta specifica legata all’utilizzo della banda larga commisurata al numero di byte usati dai siti internet. Si potrebbe pensare ad un sistema di aliquote progressive e franchigie per introdurre un meccanismo di progressività dell’imposta, magari consentendo la deducibilità di tale particolare imposta “sul consumo” dal reddito d’impresa dell’eventuale stabile organizzazione del soggetto non residente. Il ricorso a tale tipologia d’imposta (nominata “equalisation levy”), assimilabile a una sorta di “tax-per-click” (del resto anche la tobin tax, che sembra resistere a censure, sposa la logica di tassare singole transazioni ed anzi - visto che si pensa di abrogarla - potrebbe essere sostituita da quest’ultima), si scontra con difficoltà applicative legate al reperimento dei dati sull’effettivo utilizzo della banda larga.

Ma su questo si potrebbe far tesoro delle best practices implementate da alcuni Paesi esteri, che hanno introdotto un insieme di misure regolamentari volte al reperimento di dati sensibili da soggetti terzi. Come risulta dalla recente e interessante ricognizione Ocse nel documento Technology Tools to Tackle Tax Evasion and Tax Fraud, l’Australia, ad esempio, prevede il coinvolgimento dei servizi nazionali di intelligence finanziaria attivi nella prevenzione del riciclaggio e del terrorismo. Austria, Belgio, Finlandia e Giappone concentrano gli sforzi sull’estrazione di dati significativi da internet (l’Austria, in particolare, dopo l’adeguamento tecnologico ha recuperato circa 1 miliardo di euro di gettito). Il documento Ocse dimostra le potenzialità connesse al mirato utilizzo delle moderne tecnologie, anche con le regole attuali.

Al fine di superare possibili situazioni di discriminazione a livello europeo o pattizio, è possibile prevedere che l’ambito oggettivo di applicazione della nuova imposta si estenda alle imprese residenti, assicurando quindi che essa operi in modo neutrale mediante la previsione della deducibilità dall’Ires o il riconoscimento di un credito d’imposta.
L’altra alternativa, oggi che l’entrata in vigore del Cbcr (Country by country reporting) mette a disposizione un ventaglio piuttosto nutrito di informazioni utili alla “causa” (anche se resta un’imposta difficilissima da applicare perché è complesso determinare la distribuzione del carico impositivo nei gruppi), potrebbe essere quella di pensare all’introduzione di una imposta sui diverted profit similare a quella in vigore nel Regno Unito, che mira ad evitare che gli accordi stipulati da grandi gruppi, aggirando la creazione di stabili organizzazioni o utilizzando soggetti privi di sostanza economica, producano una erosione della base imponibile da tassare in loco.

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