Controlli e liti

Reverse charge, detrazione Iva bloccata dalla consapevolezza della frode

Cassazione in scia all’orientamento della Corte di giustizia Ue: l’indicazione di un fornitore fittizio inibisce il recupero dell’imposta al cessionario

Nell’ambito di una cessione di beni assoggettata a reverse charge, il Fisco può disconoscere il diritto alla detrazione Iva in capo al cessionario che, sulla relativa fattura, abbia indicato un fornitore fittizio, allorquando, alternativamente, il medesimo cessionario:

• abbia egli stesso commesso un’evasione Iva oppure sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento della detrazione «s’iscriveva in una simile evasione»;

• sia semplicemente consapevole dell’indicazione in fattura di un fornitore fittizio e non abbia fornito la prova che il vero fornitore sia un soggetto passivo Iva.

È il principio di diritto enunciato dalla Cassazione con 4250/2022. La tesi dei giudici di legittimità appare in linea con il recente orientamento della Corte di giustizia Ue, inaugurato con la sentenza nella causa C-281/20, con la quale gli eurogiudici si sono occupati per la prima volta della disciplina del reverse charge in materia di operazioni soggettivamente inesistenti.

Posto che, in linea generale, il diritto a detrarre l’Iva non può essere riconosciuto qualora manchino i dati necessari per verificare se il fornitore abbia la qualità di soggetto passivo (Corte di giustizia Ue, sentenza nella causa C-154/20), per i giudici comunitari, in particolare, la direttiva Iva 2006/112/Ce dev’essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo è negato l’esercizio del diritto a detrazione dell’Iva relativa all’acquisto di beni che gli siano stati ceduti, qualora tale soggetto passivo abbia “consapevolmente” indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso abbia emesso per tale operazione, nell’ambito dell’applicazione del regime di inversione contabile se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, manchino i dati necessari per verificare che il reale fornitore avesse la qualità di soggetto passivo o se sia sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo abbia commesso un’evasione Iva o sapesse – o avrebbe dovuto sapere – che l’operazione, invocata a fondamento del diritto alla detrazione, si iscrivesse in una simile evasione. La circostanza stessa che il soggetto passivo che ha emesso la fattura vi abbia consapevolmente menzionato un fornitore fittizio, per i giudici comunitari «è un elemento rilevante tale da indicare che il soggetto passivo in questione era cosciente di partecipare a una cessione di beni che si iscriveva in un’evasione dell’Iva» (causa C-281/20, punto 53).

È stato inoltre sottolineato che il diritto alla detrazione dell’Iva può essere disconosciuto senza la necessità di provare la malafede (in tal senso si richiama anche la pronuncia della Corte di giustizia Ue nella causa C-108/20).

Nel contesto descritto è necessario richiamare anche i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità di matrice domestica la quale – facendo corretta applicazione degli insegnamenti della Corte di giustizia Ue – ritiene costantemente che l’Iva non sia detraibile, ancorché non vi sia corrispondenza tra operazione fatturata ed operazione realizzata. Tale principio si applica anche in caso di reverse charge (in questo senso si richiamano le pronunce di Cassazione 16679/2016, 2862/2019, 3599/2020, 14853/2020, 16367/2020, 21677/2020, 9394/2021).

In applicazione di tali principi, è stato quindi affermato che – nei casi in cui non si ravvisi la coincidenza tra requisiti formali e requisiti sostanziali – rilevano la conoscenza, da parte del cessionario – dell’inesistenza del soggetto passivo (fornitore) indicato nella fattura, nonché la mancanza di elementi idonei ad individuare l’effettivo fornitore quale soggetto passivo Iva.

Se ai fini dell’Iva valgono le considerazioni che precedono, sotto il profilo della tassazione diretta, l’Erario dovrà necessariamente tener conto dell’articolo 8 del Dl 16/2012. Il secondo comma della norma, invero, specifica che in caso di verifica fiscale non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, i componenti positivi «direttamente afferenti» ai componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non deducibile. Nella situazione descritta si applica soltanto una sanzione amministrativa, ma solo con riferimento alle operazioni oggettivamente inesistenti.

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