Controlli e liti

La prima risposta ai furbetti di Dublino

di Massimo Mucchetti (Presidente della commissione Industria del Senato)

Anch’io ne trattai in un articolo di fondo del Corriere della Sera il 16 novembre 2009. La svolta matura a settembre quando, stanchi di aspettare l’Ocse e la Commissione Ue, i governi italiano, francese, tedesco e spagnolo decidono di esercitare un’aperta pressione politica sui due organismi, senza escludere iniziative nazionali. È a questo punto che il mio ddl per introdurre una web tax in Italia, presentato un anno prima, torna utile. Anche grazie al lavoro dei relatori, i senatori Luigi Marino e Gianluca Susta, che l’avevano tenuto vivo, nonostante l’iniziale scetticismo del governo. È questa l’iniziativa parlamentare, alla quale il ministro Padoan si riferisce nelle relazioni internazionali, destinata a diventare un emendamento alla legge di bilancio, com’era del resto, nei progetti del proponente e dei relatori.

Il negoziato con il governo è stato serrato. L’impostazione originaria del ddl prevedeva l’accertamento dell’esistenza di una stabile organizzazione occulta di soggetti non residenti, ma operanti in Italia, da parte dell’Agenzia delle entrate, con il concorso degli intermediari finanziari. Ove fosse impossibile pervenire a questo risultato, gli intermediari finanziari avrebbero applicato una ritenuta del 26% a titolo d’imposta sui pagamenti effettuati da residenti italiani a tali non resistenti per i servizi pienamente dematerializzati resi sul circuito digitale. Il 26% è l’aliquota prevista per i redditi diversi ai quali quei pagamenti venivano assimilati non potendo in altro modo qualificarli. Ed è analoga all’aliquota della Diverted profit tax britannica. La sua entità aveva un’evidente finalità dissuasiva dal proseguire nelle pratiche elusive. Ovviamente, non ci è mai sfuggito che anche una stabile organizzazione digitale può comunque ridurre a poco la base imponibile giocando sui transfer price. Ma prevenire e contrastare queste altre forme elusive è compito normale dell’Agenzia. I servizi in questione potevano essere B2B e B2C. Sarebbe stato comunque il ministero dell’Economia a decretare quali servizi tassare e con quale sequenza.

I quattro Grandi dell’Unione europea, tuttavia, propendono per un’imposta sui ricavi estratti dai furbetti di Dublino nei diversi Paesi e fatturati dai paradisi fiscali. Il confronto con il governo si è dunque spostato dalla sostenibilità giuridica del ddl originario trasformato in emendamento a un altro schema di gioco: confermati gli obiettivi del monitoraggio dei flussi e dell’accertamento delle stabili organizzazioni, si cancella la ritenuta sui ricavi da considerare redditi diversi e si introduce una imposta del 6%, aliquota importante ma senza proponimenti dissuasivi.

Il negoziato con il governo ha affrontato quattro punti principali.

Primo, il campo di applicazione: B2B o anche B2C? La mia proposta non faceva distinzioni in norma primaria. So bene come non sia facile enucleare nel sistema dei prezzi di Amazon quanto va attribuito al fornitore del bene ceduto e quanto al servizio commerciale digitale e fisico effettuato da questa multinazionale che tutto fattura da Lussemburgo. Per questo si lasciava sempre al governo di decidere chi e quando tassare. E tuttavia il governo ha preferito cominciare con il solo B2B. Più semplice. Ne abbiamo tenuto conto.

Secondo, chi monitora, accerta e riscuote l’imposta? In prima battuta, il governo ci ha chiesto di escludere da tutto gli intermediari finanziari. L’Agenzia delle entrate sarebbe autosufficiente. Ne abbiamo preso atto volentieri. Devono quindi considerarsi superati i problemi operativi della fatturazione elettronica emersi quest’anno. Bene. Nello schema B2B, poi, le imprese clienti delle multinazionali avrebbero trattenuto il 6% e l’avrebbero versato allo Stato. Più volte ho fatto presente che sarebbe stato più accorto eleggere a sostituti d’imposta gli intermediari finanziari, equamente remunerati per il nuovo servizio. Alla terza versione dell’emendamento, questo concetto è passato. Non spreco spazio per rispondere agli ultimi giapponesi che difendono il bidone di Google dicendo che le banche non saprebbero come fare. Dico invece che, partendo da questa saggia conclusione, la Camera potrebbe rinegoziare il comma che restringe l’imposta al B2B per estenderla anche al B2C, ovviamente come cornice di un piano operativo sull’e-commerce che starà al governo definire avendo cura di evitare una seconda IVA.

Terzo punto, le imprese italiane. Le web company italiane non hanno mai corso il rischio di pagare alcunché. Carta canta. Il primo testo dell’emendamento escludeva dalla web tax le transazioni tra soggetti che generano reddito d’impresa, ivi comprese le stabili organizzazioni di soggetti non residenti. Temendo conflitti in Europa, il governo ha preferito puntare sul credito d’imposta compensabile con tutti i versamenti di imposte e contributi nel form 24. Bene, ma, se si individuano soluzioni migliori, viva. Le imprese clienti non pagano nulla e non hanno nuove incombenze.

Quarto punto, l’entrata in vigore. L’azione dell’Agenzia inizia non appena il governo stabilisce nel dettaglio quali sono i settori digitali da sottoporre a monitoraggio e accertamento: al più tardi il primo maggio. La web tax viene rinviata, su richiesta del governo, dal primo luglio 2018 al primo gennaio 2019. Sei mesi necessari agli intermediari finanziari per attrezzarsi. Valuti la Camera se si possa chiedere a banche e società di carte di credito uno sforzo più rapido. Certo, non mancheranno le esortazioni di segno contrario delle multinazionali digitali, volte a ottenere una moratoria di due o tre anni. Ma sono sicuro che i lobbisti troveranno a Montecitorio la stessa accoglienza che hanno trovato a palazzo Madama.

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