Controlli e liti

Inammissibile l’appello con troppe pagine e documenti allegati

La Ctr Veneto boccia l’impugnazione risultata sproporzionata rispetto alla complessità della lite

di Massimo Romeo

Il dovere di chiarezza e sinteticità degli atti risponde ad esigenze avvertite non soltanto nell’ordinamento interno ma anche in sede sovranazionale. È, pertanto, inammissibile l’atto di impugnazione che contiene tante pagine e allegati che sono palesemente ingiustificati e non proporzionati al livello di complessità della causa. Così la sentenza 367 del 9 marzo 2022 della Ctr Veneto.

Oggetto del contendere erano alcuni avvisi di accertamento con cui l’agenzia delle Entrate, condividendo integralmente le risultanze dell’attività di verifica condotta dai militari della Guardia di Finanza, contestava ad una società la contabilizzazione di fatture per operazioni commerciali inesistenti emesse da numerose società fittizie (cartiere). Poiché la società negli anni d’imposta considerati era una Snc, l’ufficio imputava per “trasparenza” ai singoli soci il reddito accertato in capo alla società. Impugnavano gli avvisi di accertamento notificati sia la società che i soci. La Commissione di primo grado, riuniti preliminarmente i ricorsi, li rigettava con un’unica sentenza. Quest’ultima veniva impugnata con un atto di appello di 172 pagine al quale venivano allegati 36 documenti che nel fascicolo telematico erano rappresentati da 225 allegazioni (l’allegato principale era una consulenza tecnica che risultava composta da 1279 pagine).

I giudici di secondo grado decidono per l’inammissibilità dell’atto di gravame. La Commissione richiama un consolidato orientamento della Corte di Cassazione che ha individuato nella sommarietà (intesa come concisione dei fatti essenziali) e intellegibilità della esposizione nelle difese delle parti, una condizione prevista a pena di inammissibilità degli atti difensivi e dei procedimenti ad essi conseguenti. «Ciò implica - osserva la Ctr - a cura delle parti in causa, di dover effettuare un lavoro di sintesi e di selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda quale viene poi sottoposta al vaglio dei giudici, in un’ottica di economia processuale che serva ad evidenziare i profili rilevanti ai fini della formulazione dei motivi (Cassazione 15180/2010) senza però rendere oltremodo complessa la comprensione sia dei fatti che dei principi di diritto che la parte intende sottoporre al vaglio del giudicante». Ove si consentisse, chiosa il collegio, una elaborazione degli atti caratterizzata dall’assenza, a cura delle parti, di un qualsiasi sforzo di selezione e rielaborazione sintetica del contenuto delle circostanze di fatto e dei documenti effettivamente rilevanti, si imporrebbe (indebitamente) al giudice dell’impugnazione, dopo averlo costretto a leggere tutto (anche ciò di cui non serve affatto che egli sia informato), la scelta di ciò che effettivamente rileva in relazione ai motivi di gravame (Cassazione, Sezioni unite, 17168/2012 e 5698/2012; Cassazione 10244 e 26277/2013, Cassazione 23731/2017). La Ctr avvalora l’importanza nell’ordinamento processuale del principio della sintesi con il richiamo fatto dalle Sezioni Unite all’articolo 3 n. 2) del Cpa (Dlgs 104/2010) il quale prescrive alle parti di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica. Tale dovere di chiarezza e sinteticità, osservano ulteriormente i giudici veneti, risponde anche ad esigenze avvertite in sede sovranazionale, cosi come dimostrato dalle «istruzioni pratiche alle parti relative ai ricorsi diretti e alle impugnazioni» redatto in ambito europeo dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. La Commissione ricorda, altresì, che i citati principi, per il loro carattere di generalità, appaiono applicabili non solo al processo civile ma anche a quello tributario (ex articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/1992) il cui regime speciale del giudizio dappello (ex articoli 52 e successivi dello stesso decreto), deve ritenersi pienamente coerente con tali principi laddove stabilisce il requisito della specificità e sinteticità dei motivi di impugnazione. Nel caso di specie, la Ctr afferma di non poter non sanzionare con l’inammissibilità il ricorso in appello proposto alla luce dei numeri che lo riguardavano e che risultavano palesemente ingiustificati e non proporzionati al livello di complessità della causa: 172 pagine, 36 allegati caricati nel fascicolo informatico in 225 files (uno di essi era una consulenza tecnica composta a sua volta da 1279 pagine che, con i suoi allegati, era stata caricata a sistema suddivisa in 56 file ognuno dei quali protocollati come un documento). Concludevano gli interpreti che «Tutti questi dati/numeri…Omissis…sono tali da determinare, alla stregua dei principi di sinteticità sopra richiamati, la indubbia ed integrale inammissibilità del ricorso».

Giova ricordare che sull’applicazione della massima sanzione processuale, quale appunto quella dell’inammissibilità, si sono espressi in più occasioni sia i giudici di merito che di legittimità nel senso della tassatività della fattispecie, ovvero dell’esplicita previsione della condotta sanzionabile nella norma processuale, e della ragionevolezza nella sua applicazione (extrema ratio).

In una delle sue pronunce, ad esempio, la Cassazione ( ordinanza n. 17533 del 28 giugno 2019) ha affermato che «le previsioni di inammissibilità, proprio per il loro rigore sanzionatorio, devono essere interpretate in senso restrittivo, limitandone cioè l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato; ciò anche tenendo presente l’insegnamento fornito dalla Corte Costituzionale, con particolare riguardo al processo tributario, secondo il quale le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della «tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità».

Nella stessa direzione una recente sentenza della Ctr Lombardia (n. 4441 del 15 dicembre 2021) in cui è stata richiamata dai giudici ambrosiani la consolidata giurisprudenza Cedu (ex plurimis ricorso n. 17140/08 sentenza Bruxelles 24 aprile 2008 e Ricorso n. 20485/06 sent. Strasburgo 16 giugno 2015) secondo cui va sempre bilanciata l’esigenza di certezza del diritto con il diritto del singolo ad un giusto processo così come disposto dall’articolo 6 della stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in base ad un ragionevole rapporto di proporzionalità tra mezzi utilizzati e scopo perseguito.

Di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha “bacchettato” l’Italia (sentenza 55064 del 28 ottobre 2021) per violazione dell’articolo 6 della Convenzione in virtù dell’eccessivo formalismo dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione. I giudici di Strasburgo hanno ricordato che l’accesso alla giustizia e le procedure che disciplinano l’esercizio del potere di impugnazione devono essere chiare, prevedibili e proporzionate circa le conseguenze derivanti dalle violazioni di norme processuali.

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