Imposte

Voucher, la Cassazione: Iva sul prezzo ricevuto senza considerare il valore nominale

La sentenza 20167 respinge la tesi dell’Agenzia: la catena di distribuzione ricorrente pratica uno sconto sul prezzo finale, cedendo merce per un valore superiore a quanto ricevuto dal gestore

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di Gabriele Sepio

In caso di cessione di buoni acquisto il venditore sconta l’Iva sul prezzo ricevuto senza considerare il valore nominale del buono. Questo il principio di diritto che emerge dalla sentenza 20167/2020 della Cassazione.

L’ipotesi riguarda una società di grande distribuzione che aveva avviato un programma di fidelizzazione dei clienti attraverso vendite promozionali a punti. L’iniziativa prevedeva il rilascio da parte di un gestore terzo di “carte magnetiche” sulle quali venivano accreditati punti in proporzione alla spesa effettuata presso gli esercizi collegati al venditore. Al raggiungimento di un certo numero di punti spettava ai clienti il diritto di scegliere alcuni premi tra cui dei buoni spesa del valore nominale di 10 euro da utilizzare presso il venditore. Quest’ultimo, per ciascuno di tali buoni distribuiti, riceveva a sua volta dal gestore la somma di 5,83 euro

Il venditore, a seguito della cessione dei buoni aveva versato l’Iva tenendo conto del prezzo ricevuto dal gestore (5,83 euro) e non del valore nominale (10 euro). Proprio su questo aspetto si basa la contestazione dell’agenzia delle Entrate stando alla quale il venditore avrebbe erroneamente conteggiato l’imposta. Secondo l’erario, infatti, l’Iva avrebbe dovuto essere calcolata tenendo conto delle vendite effettuate ai clienti portatori dei buoni. L’accettazione di questi ultimi, infatti, avrebbe generato una cessione gratuita di beni imponibile Iva in base al valore nominale del buono stesso.

La Suprema corte nel respingere il ricorso presentato dall’Agenzia prende le mosse da alcuni precedenti della Corte di giustizia Ue assimilabili al caso di specie. Tra questi, in particolare, nella causa «Argos distribution» del 24 ottobre 1996, la Cgue aveva già avuto modo di precisare che il buono, per sua natura, non costituisce altro che un documento nel quale è incorporato l’obbligo assunto dal venditore di accettare lo stesso, al posto del denaro, al suo valore nominale. Dunque, per verificare il controvalore in denaro che emerge a seguito dell’accettazione del buono, il venditore non può che fare riferimento alla iniziale operazione di vendita del buono stesso al gestore. Per questo, secondo la Cgue, al momento dell’incasso del buono dal cliente, il venditore risulta avere percepito la somma corrisposta al momento della cessione dello stesso al gestore, ossia il valore nominale del buono diminuito dello sconto eventualmente accordato. Tenendo conto dei precedenti Ue la Cassazione ha, dunque, respinto la tesi dell’Agenzia partendo dal presupposto che, nel caso di specie, la catena di distribuzione ricorrente, accettando di cedere merce per un valore superiore (10 euro) a quanto ricevuto dal gestore (5,83 euro), finisce con il praticare un vero e proprio sconto sul prezzo finale.

Né, secondo la Corte, potrebbe trattarsi, in tal caso, di una cessione a titolo gratuito. Ipotesi, quest’ultima, rinvenibile, semmai, nel caso in cui i beni fossero stati ceduti a prezzo scontato dallo stesso venditore qualora questi avesse organizzato la promozione in autonomia, senza l’intervento di un terzo gestore.

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