Compenso non deliberato degli amministratori: la linea della Cassazione e gli spiragli per la deduzione
L’ordinanza 7329/2021 ribadisce il principio che però va allargato al divieto della «doppia imposizione» e «doppia non imposizione»
A più riprese la Cassazione ha affermato, seppur con sfumature diverse, l’indeducibilità del compenso dell’amministratore non deliberato – in tutto o in parte - dalla società. In questo contesto si segnala ad esempio l’ordinanza 7329 dello scorso 16 marzo, con cui la V sezione della Suprema corte ha ribadito il concetto, tralasciando tuttavia alcune riflessioni che potrebbero essere d’aiuto rispetto a un tema da sempre molto delicato.
Le regole del Tuir
Innanzitutto è bene ricostruire i principi che portarono il legislatore a definire l’articolo 95, comma 5, del Tuir nella sua attuale formulazione.
L’attuale versione della norma prevede che il compenso amministratore sia:
1. per il percettore, inquadrabile fra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente;
2. sulla base del richiamo esplicito dell’articolo 95 del Tuir, deducibile per l’impresa nel periodo in cui lo stesso sia stato erogato dal committente.
Quest’ultima disposizione appare certamente come una norma di chiusura rispetto ad eventuali comportamenti elusivi, specie per le imprese a ristretta base societaria. Si tratta di un precetto che per le imprese è completamente svincolato sia dalle norme civilistiche (che imporrebbero l’applicazione del principio di maturazione), sia dal regime fiscale naturale per i costi sostenuti per i dipendenti o collaboratori, i quali sarebbero deducibili sulla base del principio di competenza ex articolo 109 del Tuir per le micro-imprese.
Proprio l’aver disciplinato specificamente la deducibilità per l’impresa rispetto alle norme ordinarie, rende questo componente avulso dalle norme civilistiche e fiscali.
I soggetti Oic adopter
Questo regime è completamente abbandonato per le imprese Oic adopter dal principio di derivazione rafforzata, dove l’applicazione della derivazione porta in dote i criteri di «qualificazione», «imputazione a periodo» e «classificazione». In questo caso le problematiche di indeterminatezza del compenso, come ostacolo spesso richiamato dalla Cassazione, appaiono superato dalle disposizioni contenute nell’articolo 83 del Tuir.
Non solo: la norma speciale di natura fiscale (applicabile ad entrambe le imprese) non interviene sui dettami civilistici, applicando in modo “rigido” non solo il principio di cassa vicendevole (committente e prestatore) ma evitando che si potesse applicare un salto d’imposta nella cronologia temporale fra elemento deducibile per l’impresa e imponibilità per il percettore. Rispetto invece al concetto, tanto caro alla Cassazione, della doppia imposizione (economica o giuridica), vi sarebbe la necessità di considerare il ben più pregnante criterio della ”simmetria impositiva”, cardine del nostro sistema reddituale.
Naturale conseguenza della simmetria impositiva - dove la medesima fattispecie economica è da un lato deducibile e dall’altro imponibile – porta all’ulteriore criterio, ormai completamente accettato dal nostro sistema, del divieto della «doppia imposizione» e/o «doppia non imposizione».
Rispetto poi alla asserita mancanza di idonea delibera assembleare è bene ricordare che comunque all’amministratore spetterebbe un compenso, anche in assenza di delibera, che potrebbe essere stabilito per via giudiziaria.
Si arriverebbe all’assurdo giuridico che un compenso non deliberato ma definito per via giudiziaria potrebbe risultare non deducibile perché mancante del presupposto formale.
Inoltre la asserita illeicità del compenso erogato non trova cittadinanza nei commi 4 e 4-bis dell’articolo 14 della legge 537/1993 in quanto da un lato il principio di cassa rende comunque imponibili i compensi percepiti dall’amministratore e dall’altro il compenso inteso come costo non può essere ricondotto in modo sinallagmatico a spese «direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo».