Diritto

Il rappresentante legale indagato non può mai nominare il difensore dell’ente

La Cassazione chiarisce che il divieto riguarda anche gli atti urgenti

di Sandro Guerra

Il divieto di nomina del difensore dell’ente da parte del rappresentante legale indagato da cui dipende l’illecito amministrativo, ricavabile dall’articolo 39, comma 1, Dlgs 231/2001, non tollera eccezioni neppure per gli atti urgenti, come l’impugnazione di una misura cautelare, ed anzi un modello organizzativo adeguato dovrebbe considerare tale ipotesi e disciplinare ex ante le modalità con le quali l’ente provveda, in questi casi, alla nomina di un difensore.

Questi i due princìpi enunciati dalla terza sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35387 depositata il 22 settembre 2022, che ha ribadito l’inammissibilità dell’impugnazione – per difetto di legittimazione – di una misura cautelare reale da parte dell’ente chiamato a rispondere di illeciti amministrativi di cui al Dlgs 231/2001 perché proposta da un difensore designato dall’amministratore sottoposto ad indagini rispetto al reato presupposto.

Il primo di essi, declinato in modo netto, è frutto di un significativo ripensamento rispetto a quanto in passato affermato dalla stessa Corte.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 33041 del 28 maggio 2015, avevano elevato l’articolo 39, comma 1, Dlgs 231/2001 a fonte di un divieto, giustificato dal sospetto che l’atto di nomina del difensore di fiducia dell’ente indagato, quando formalizzato dal legale rappresentante a sua volta indagato, potesse essere «produttivo di effetti potenzialmente dannosi sul piano delle scelte strategiche della difesa dell’ente che potrebbero trovarsi in rotta di collisione con divergenti strategie della difesa del legale rappresentante indagato»: divieto operativo, tuttavia, solo in presenza di una previa comunicazione dell’informazione di garanzia prevista dall’articolo 57 del Dlgs 231/2001, restando negli altri casi validamente proposta l’eventuale impugnazione di «atti che si presentino col carattere dell’imprevedibilità e della urgenza», anche in assenza di formale costituzione in giudizio dell’ente.

Parte della giurisprudenza successiva aveva colto, in tale distinguo, il carattere non assoluto e non inderogabile del divieto, «occorrendo valutare le situazioni nelle quali la rapidità e la sorpresa della iniziativa investigativa del pubblico ministero non renderebbero effettiva la possibilità dell’ente di realizzare una utile opzione per la costituzione nel procedimento, a volte subordinata, in base alle dimensioni e configurazione dell’ente stesso, anche ad attivazione di organi consiliari e alla espressione di volontà collegiali che richiedono tempi tecnici di qualche apprezzabilità» (Cassazione penale, sezione quarta, 6 aprile 2021, n. 19992).

Si pensi non solo all’impugnazione dei provvedimenti applicativi di misure cautelari, disciplinata dall’articolo 52 del Dlgs 231/2001 attraverso il rinvio all’articolo 322-bis del Codice di procedura penale e quindi soggetta al termine di decadenza di dieci giorni, ma anche agli incombenti interlocutori caratterizzati da un termine di attivazione ancora più breve: le deduzioni sull’ammissibilità e fondatezza richiesta di incidente probatorio avanzata dal pubblico ministero, ad esempio, da proporre entro due giorni dalla notificazione (articolo 396, comma 1, del Codice di procedura penale), oppure le osservazioni sulla richiesta di proroga del termine per il compimento delle indagini preliminari da formulare nel termine di cinque giorni dalla notificazione (articolo 406, comma 3), norme certamente applicabili al procedimento riguardante l’ente perché compatibili (articolo 34 del Dlgs 231/2001).

La sentenza 35387 del 2022 si discosta apertamente dalla «interpretazione offerta dal decisum delle Sezioni Unite» nella sentenza 19992 del 2021, evidenziando che quest’ultima «ad oggi non ha ricevuto conferma in altre pronunce».

Il secondo principio ricavabile dalla sentenza in esame, invece, ancorché timidamente enunciato, è dotato di una portata innovativa rispetto alla “tradizionale” funzione dei modelli di organizzazione e gestione, classicamente scrutinata solo in relazione all’idoneità/inidoneità di contenimento del rischio reato: «il sistema della responsabilità amministrativa degli enti», si legge in motivazione, «è volto proprio a sollecitare le persone giuridiche all’adozione di modelli organizzativi al fine di prevenire i reati rispetto ai quali possa sorgere la loro responsabilità amministrativa, strutturando la propria organizzazione in modo da adeguare l’intervento nel caso in cui dalla propria attività possa conseguire un’indagine penale», e tale onere di strutturazione non potrebbe che prevedere anche le modalità di «nomina di un difensore da parte di un soggetto specificamente delegato a tale incombente per i casi di eventuale conflitto con le indagini penali a carico del legale rappresentante».

Il modello organizzativo conforme al Dlgs 231/2001, insomma, non dovrebbe dettare soltanto regole comportamentali “nell’impresa” ma anche “per l’impresa”, regole questa volta destinate a spiegare effetti al di fuori dell’organizzazione aziendale e nella dimensione processuale tipica del corporate trial.

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