Diritto

L’assenza del modello 231 non basta per far scattare la colpa di organizzazione

Per la Cassazione si deve verificare l’assetto adottato in concreto dall’azienda

di Luca Luparia Donati

La colpa di organizzazione, elemento costitutivo dell’illecito 231, non può basarsi solo sulla mancata adozione o sull’inefficace attuazione del modello 231. Il giudice di merito deve cioè verificare il concreto assetto organizzativo adottato dall’azienda per prevenire reati della stessa tipologia. E non si può parlare di un «generale interesse» per l’ente poiché l’interesse sussiste solo se c’è consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche.

Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 39615 del 20 ottobre, che costituisce un ulteriore tassello dell’orientamento giurisprudenziale volto a delineare un vero e proprio statuto garantista per le società imputate ai sensi del Dlgs 231/2001.

Annullando una “doppia conforme” che aveva visto l’impresa condannata in entrambi i giudizi di merito per lesioni colpose gravissime di un dipendente (articoli 5 e 25 septies del Dlgs 231) i giudici di legittimità tornano sul concetto di interesse e chiariscono i confini della cosiddetta colpa organizzativa. Il fatto riguardava un infortunio occorso a un operaio che, durante un’operazione di sostituzione di un nastro trasportatore, era rimasto schiacciato da una componente in transito del carroponte.

La Corte rileva che la decisione impugnata nulla dice sulla “colpa di organizzazione”. Tale requisito, elemento costitutivo dell’illecito della società, non può essere integrato dalla sola mancata adozione (o inefficace attuazione) del modello 231, da provarsi peraltro a cura della pubblica accusa. Il giudice di merito avrebbe insomma dovuto verificare il concreto assetto organizzativo adottato dall’azienda in tema di prevenzione dei reati della specie di quello realizzatosi, accertando anche l’incidenza causale rispetto alla verificazione del delitto presupposto.

La Cassazione richiama autorevoli precedenti (Sezioni unite 32899/ 2021 e 38343/2014) e ribadisce che “interesse” e “vantaggio” – riferiti, per i reati colposi d’evento, alla sola condotta – costituiscono parametri imputativi alternativi. Il primo, da accertarsi ex ante, consiste nella prospettazione finalistica di conseguire un’utilità per la società mediante il reato. Il secondo va invece valutato ex post sulla base degli effetti in concreto derivati dall’illecito.

Non è dunque possibile parlare, come nella sentenza d’appello, di un «generale interesse» per l’ente onde farvi rientrare ogni tipo di profitto. Vi è interesse soltanto qualora sussista «la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l’ente (vale a dire un risparmio di spesa)». La volontà di risparmiare non è invece necessaria per la dimostrazione del vantaggio, ravvisabile nel caso di violazione sistematica di regole prevenzionistiche da cui sia derivata una economia di costi con massimizzazione del profitto.

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