Controlli e liti

Non inerenti le consulenze del socio-amministratore tramite un’altra società

Bocciata dalla Cassazione l’esternalizzazione di attività consulenziali eseguite dalla stessa persona che sia anche amministratore e socio della società destinataria di tali servizi

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di Stefano Mazzocchi

Le consulenze alla società di cui si è amministratore e socio finiscono sotto la lente della Cassazione. In base all’articolo 109, comma 5, del Tuir, le spese e gli altri componenti negativi, sono deducibili – eccezion fatta per le ipotesi previste dalla medesima disposizione – se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.
In merito alla portata di tale precetto, che consacra nel nostro ordinamento – ai fini della tassazione diretta – il principio della “inerenza” si registra un importante sviluppo giurisprudenziale, sia di merito sia di legittimità.

Antieconomicità

È in tale contesto che si inquadra un’interessante sentenza della sezione tributaria della Suprema corte (numero 20192 del 6 maggio 2022, depositata lo scorso 22 giugno), che affronta la questione del rispetto o meno del requisito dell’inerenza in relazione a determinati servizi consulenziali prestati a una società dal suo amministratore-socio tramite una sua “propria” ed ulteriore società “personale”.

Per i giudici di legittimità, in particolare, la “esternalizzazione” di attività consulenziali effettuate dalla stessa persona che rivesta anche la qualità di amministratore e socio della società destinataria di tali servizi, è sufficiente a ritenere antieconomico, e quindi, non inerente, il relativo costo. Tale conclusione appare irrobustita laddove – come è stato accertato nella fattispecie esaminata dai giudici di legittimità – non emergano giustificazioni sulla scelta di affidare ad un soggetto terzo una consulenza che viene svolta ed effettuata dal proprio socio-amministratore.

Il requisito dell’inerenza

La pronuncia in esame ribadisce, quindi, il principio che la presunta antieconomicità apre la strada a un rilievo fondato sulla carenza del requisito della inerenza: si tenga presente infatti che, a differenza di quanto avviene ai fini della detrazione dell’Iva, rispetto alla quale il concetto tende ad assumere una dimensione esclusivamente qualitativa, nelle imposte dirette l’antieconomicità di una spesa, ossia la sproporzione sul piano quantitativo, può costituire un significativo sintomo della non inerenza della stessa (Cassazione 30 maggio 2018, n. 13588).

Ciò non toglie, peraltro, che debba essere comunque posta l’attenzione al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il contribuente dev’essere comunque posto nelle condizioni di dimostrare l’inerenza del costo (Cassazione 2 febbraio 2021, n. 2224). Sotto questo profilo, occorre inoltre ricordare che per la Cassazione, ai fini delle imposte dirette il principio dell’inerenza esprime la riferibilità dei costi sostenuti all’attività d’impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura (ordinanza 13 luglio 2020, n. 14867).

L’inerenza dei costi all’attività d’impresa, quindi, attiene ad una relazione tra il costo e l’attività di impresa complessivamente intesa, indipendentemente da una esplicita correlazione a una precisa componente positiva di reddito (Cassazione 27 febbraio 2015, n. 4041; 22 dicembre 2016, n. 26749).

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