Per i dividendi esteri non sempre c’è la Pex
La base imponibile per tassare con le regole italiane i dividendi distribuiti da controllate con sede in Stati a fiscalità privilegiata è pari al 100 per cento. In tal caso non è possibile fruire, in linea di principio, della partecipation exemption (con imponibile pari al 5%).
Il regime delle Cfc è stato modificato dalla legge di Stabilità del 2016. Ora l’articolo 167 del Tuir stabilisce che il discrimine per un Paese a fiscalità privilegiata non è l’appartenenza a una black list, ma il livello nominale di tassazione: se è inferiore al 50% di quello italiano la partecipata è «black» (si veda anche l’articolo in apertura).
La conseguenza delle nuove regole è che molte controllate estere operative, create dagli imprenditori italiani, anche medi o piccoli, che negli anni scorsi hanno delocalizzato la produzione in Paesi collaborativi, dal 2016 risultano «black»; i dividendi vanno quindi tassati per trasparenza in capo alla controllante italiana. Si tratta, tra l’altro, spesso di una “ri-tassazione”, posto che il regime Pex è stato introdotto, accogliendo i principi della direttiva Ue madre-figlia, proprio per scongiurare la doppia tassazione su utili già tassati in capo alla società figlia.
Per evitare l’applicazione della tassazione integrale non è sufficiente dimostrare l’effettivo svolgimento di un’attività industriale o commerciale (la prima esimente, prevista dall’articolo 167, comma 5, lettera a, del Tuir). L’esimente, infatti, permette di evitare la tassazione per trasparenza degli utili «black» al momento in cui vengono maturati, ma i dividendi vengono comunque tassati al 100 per cento. Tanto che risulta più conveniente investire gli utili nel Paese estero piuttosto che farli rientrare in Italia. Questa modalità di tassazione non si applica però alle controllate localizzate in un Paese Ue o dello Spazio economico europeo, come ribadito dalla circolare 35/E/2016 dell’agenzia delle Entrate.
È possibile invece applicare il regime Pex, con tassazione domestica del 5% sui dividendi, se si dimostra che il possesso della partecipazione non ha l’effetto di localizzare i redditi in Stati a fiscalità privilegiata (seconda esimente, prevista dall’articolo 167, comma 5, lettera b, del Tuir). Nella pratica, si tratta di una dimostrazione molto difficile da fornire anche per le controllate operative basate in un Paese collaborativo, ma con tassazione inferiore al 50 per cento.
Inoltre, spesso lo Stato di insediamento applica una ritenuta in uscita al momento della distribuzione dei dividendi. Quindi, le società che dimostrano di poter utilizzare la prima esimente sconteranno la tassazione integrale dei dividendi, ma potranno fruire sia del credito relativo alla ritenuta in uscita, purché non superiore a quanto stabilito dalla Convenzione bilaterale, sia del credito per le imposte versate dalla controllata, alla luce di quanto previsto dal decreto internazionalizzazione. La possibilità di fruire dei crediti indiretti pone rimedio alla distorsione per cui le società con una controllata realmente operativa rischiavano una tassazione più gravosa di quelle con una controllata priva di radicamento nel territorio, da tassare per trasparenza.
Se invece si dimostra di ricadere nella seconda esimente (ma nella pratica è raro che sia possibile), i dividendi saranno imponibili per il 5% del loro ammontare, con possibilità di fruire del credito di imposta estero solo per il 5% di quanto versato.