Controlli e liti

Posta e risultato provano il credito dello studio commercialista

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di Patrizia Maciocchi

La prova dell’obbligo a pagare il compenso allo studio di commercialisti per l’attività svolta da uno dei titolari in favore della società, può essere desunta, oltre che dal risultato conseguito, anche dall’ampia corrispondenza tra le parti.

Il professionista non è neppure vincolato alla parcella pattuita in prima battuta, salvo che questa sia il frutto di un pregresso accordo accettato dal cliente.

La Cassazione, con la sentenza 2575 , smonta le eccezioni proposte dalla società ricorrente, per negare il debito reclamato dallo studio, in assenza di una prova degli incarichi conferiti. L’obbligazione riguardava l’assistenza prestata alla ricorrente per il subentro nelle quote di un’altra Spa.

La società contestava sia la possibilità di costituirsi in giudizio dello studio, sia la stessa esistenza di un rapporto dal quale originava un credito, considerato comunque eccessivo. La Cassazione si allinea alla Corte d’Appello che aveva accolto il ricorso dei commercialisti. Per dare il via libera a stare in giudizio il giudice deve solo verificare che esista un accordo in tal senso tra gli associati. La Corte di merito aveva inoltre accertato l’obbligo di pagare il compenso, fondando la sua convinzione non solo sul conseguimento del buon risultato ottenuto dalla ricorrente, ma anche sull’ampia corrispondenza intercorsa tra le parti, oltre che sugli accertamenti del Ctu.

Quanto al compenso la Suprema corte considera adeguato l’importo richiesto dallo studio associato. I giudici precisano che l’importo può variare rispetto alla prima richiesta, sulla quale possono avere influito, oltre alla valutazione dell’adeguatezza dell’opera svolta una serie di fattori che possono poi venire meno: dal rapporto amichevole con il cliente, alla sua situazione di difficoltà economica che può aver indotto il professionista a contenere la richiesta.

Di conseguenza se il professionista, dopo aver presentato al proprio cliente una parcella “tarata” sui minimi tabellari, richiede un maggior importo per le stesse attività, la valutazione, discrezionale, della sua congruità spetta al giudice di merito, fatta salva l’ipotesi in cui la prima richiesta sia vincolata da un’espressa accettazione del cliente. Nello specifico vista il buon risultato ottenuto e l’impegno prestato per il giudice il “prezzo” è giusto.

Cassazione, II sezione civile, sentenza 2575 del 2 febbraio 2018

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