Professione

Quella nostalgia delle «Finanze»

di Salvatore Padula

«Quella dell’agenzia delle Entrate è stata una scelta obbligata. Anche perché il ministero delle Finanze (alla metà degli anni ’90, ndr ) era in uno stato comatoso, incapace di stare al passo dei tempi o di funzionare decentemente». L’ex ministro Vincenzo Visco così descriveva la grande rivoluzione che dal 1° gennaio 2001 avrebbe cambiato il volto dell'amministrazione finanziaria. Più di 16 anni dopo, l’agenzia delle Entrate si presenta idealmente a un “nuovo inizio” con il passaggio di consegne tra Rossella Orlandi ed Ernesto Maria Ruffini.

Il neo direttore riceve in eredità un’Agenzia sana ma al tempo stesso in sofferenza. E non è un paradosso. Oggi più che mai sembrano venire al pettine i nodi irrisolti di una riforma che, insieme a tanti tangibili successi, ha lasciato aperte ferite che vanno rapidamente curate. Ne è un esempio - non il più lampante ma certamente il più attuale (che per altro la Orlandi è riuscita a gestire con molta serietà nonostante il disinteresse di una certa parte del governo e della politica) - il problema del reclutamento del personale, dei dirigenti in particolare, che si voleva fossero “liberamente” selezionati ma che poi tra ricorsi e sentenze è stato ricondotto nell'alveo della Pa. Ancor di più, non ha funzionato quella separazione tra il ruolo di “regia del sistema fiscale” affidato dalla riforma al dipartimento delle Finanze e il ruolo di “gestione” della macchina fiscale affidato all’Agenzia, soggetto autonomo vigilato dal ministero.

A pensarci bene, l’Agenzia nata per superare il vecchio e polveroso ministero delle Finanze ne ha di fatto assunto gran parte delle sembianze. L’Agenzia è diventata il vero (e unico) dominus del Fisco. Che si occupa di tutto: dai servizi ai contribuenti all'accertamento; dall'interpretazione delle norme al contenzioso fino agli interpelli.

E non è un mistero, come alcuni sostengono, che proprio dagli uffici dell’agenzia escano molte norme fiscali, spesso nate ex post (accusa questa tutta da verificare) per “rendere più solide” le tesi dei suoi accertamenti.

Questa commistione annacqua la logica di una riforma che mirava a una gestione del fisco separata dalle scelte di politica tributaria. Per dirla con Ocse e Fmi, incaricati dal ministro Padoan di “studiare” il modello italiano, l’Agenzia ha meno autonomia di quanto ne servirebbe, meno di quanta ne richiedono gli standard internazionali: è organo politico, correlato all’orizzonte di vita del governo. Il che ripropone la vecchia domanda su l ruolo dell’agenzia: soggetto autonomo o dipartimento ministeriale?

Risposta complicata. E anche altalenante. L’ultimo orientamento sembra puntare a un’Agenzia direttamente connessa all’esecutivo, sulla scia tracciata dai decreti (non attuati) della riforma Madia. Vedremo.

In attesa che si faccia chiarezza, si dovrebbe però cogliere l’occasione dell’arrivo del nuovo direttore per riflettere sull’assetto della macchina che gestisce i tributi, su come ottimizzarne il funzionamento, su come lavorare ancor di più sul fronte del rapporto fisco-contribuente. Un’amministrazione che lavora bene, con le competenze necessarie e con la giusta attenzione alle esigenze dei cittadini-contribuenti, è requisito essenziale (anche se non unico) per un sistema più efficiente ed efficace.

Si potrebbe partire mettendo la parola fine a quella che da molti è considerata la più evidente anomalia: l’interpretazione delle norme (sorvoliamo sulla loro redazione…), attività ben diversa dalla loro illustrazione, che è invece attività di supporto ai contribuenti. Un sistema fiscale nel quale le circolari interpretative finiscono per avere più rilevanza delle norme di legge è un sistema che rischia il collasso. E allora, che ognuno faccia il proprio mestiere: il legislatore norme chiare e di cui sia chiara la ratio. L’Agenzia torni ai suoi compiti, considerato che già ne deve svolgere in abbondanza (a breve anche quello, molto delicato, della riscossione). Diamo all’Agenzia i dirigenti che servono, rendiamo più efficiente il contraddittorio, diamo spazio a forme reali di autotutela, stringiamo i tempi sui rimborsi, sulle risposte agli interpelli, sul rilascio della modulistica e software vari (riconoscendo, certo, gli importanti miglioramenti fatti negli ultimi anni). E razionalizziamo anche la convivenza di Agenzia e Gdf, seguendo anche in questo caso le indicazioni di Ocse e Fmi.

Poi c’è il tema degli accertamenti: serve qualità, meno spazio all’evasione da “interpretazione”, che vuol dire incassi (più) certi e riduzione del contenzioso, ma anche miglior rapporto con i contribuenti. Si spazzi via ogni dubbi o sui budget imposti agli uffici. Questo è il vero “cambia verso”. La compliance è importante – e anche qui vanno riconosciuti gli sforzi di Rossella Orlandi – ma questo modus operandi va trasferito agli uffici periferici, un po’ più refrattari al cambiamento.

Serve poi affinare le capacità di ascolto degli operatori: dice molto il disagio emerso proprio pochi giorni fa nelle parole del presidente dei commercialisti Massimo Miani. Le semplificazioni toccano naturalmente al legislatore ma l’ Agenzia può spingere in questa direzione. E ha il dovere di non trincerarsi dietro le sempre nuove esigenze della lotta all’evasione per caricare operatori e professionisti di adempimenti. Così come va governata la spinta alla digitalizzazione, perché altrimenti si rischia che a pagarne il conto aggiuntivo siano sempre e solo i contribuenti.

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