Responsabilità 231, l’autore del reato non può impugnare le sanzioni alla società
La Cassazione ribadisce l’inammissibilità del ricorso della persona fisica
È inammissibile il ricorso proposto dall'imputato persona fisica, autore del reato presupposto, contro la parte della sentenza che riconosce la responsabilità dell’ente. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 494 depositata il 12 gennaio scorso.
La pronuncia si colloca nel solco dell’orientamento che fa leva sull’autonomia della posizione dell’ente da quella della persona fisica. Un’autonomia di natura sostanziale – significativo, in proposito, il titolo dell’articolo 8 del Dlgs 231/2001 – ma che produce effetti anche sul piano processuale, ed in particolare sul diritto all’impugnazione, riconosciuto autonomamente all’uno e all’altra (Cassazione, sezione IV, sentenza 11688 del 15 dicembre 2020).
L’articolo 71 del D lgs 231/2001 dispone che l’ente possa impugnare la sentenza che applichi sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive nei casi e nei modi stabiliti per l’imputato dal quale dipende l’illecito amministrativo. Nel caso in cui la sentenza preveda una o più sanzioni interdittive l’ente è, invece, legittimato a proporre appello anche nelle ipotesi in cui tale mezzo di impugnazione non sia ammesso per l’imputato: si pensi, ad esempio, ad una condanna con la quale sia stata applicata la sola pena dell’ammenda che risulta quindi inappellabile (articolo 593, comma 3 del Codice di procedura penale).
Quest’ultima previsione, secondo la giurisprudenza, confermerebbe l’autonomo diritto dell’ente ad impugnare la sentenza che gli applichi sanzioni.
La norma spesso evocata per sostenere l’esistenza del concorrente diritto dell’imputato all’impugnazione dei capi di sentenza riguardanti l’ente è invece l’articolo 72 del dlgs 231/2001 in tema di estensione delle impugnazioni, secondo la quale le impugnazioni proposte dall’imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo e dall’ente, giovano, rispettivamente, all’ente e all’imputato, purché non fondate su motivi esclusivamente personali.
Si tratta dell’importazione nel corporate crime trial della regola coniata per l’imputato persona fisica, nel processo “tradizionale”, dall’articolo 587 del Codice di procedura enale: nel caso di concorso di più persone nel medesimo reato l’impugnazione proposta da una di esse giova anche agli altri imputati laddove non fondata su motivi esclusivamente personali. Analogamente, degli effetti favorevoli dell'impugnazione dell'imputato possono beneficiare il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Viceversa, sempre a condizione che non si tratti di motivi esclusivamente personali, l'impugnazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria giova all'imputato anche agli effetti penali.
La formula generalmente utilizzata per descrivere il fenomeno è quella di «effetto estensivo dell'impugnazione», ereditata dalla rubrica dell'articolo 203 del Codice di procedura penale del 1930, ma forse non proprio corretta perché l'estensione – ed è questo il punto –, non opera sempre e comunque, essendo tuttora prevista dall'articolo 587 del Codice di procedura penale come mera evenienza e con operatività limitata ai soli processi per reati plurisoggettivi.
Ecco che l'articolo 72 del Dlgs 231/2001, quando permette di estendere all'ente non impugnante gli effetti favorevoli conseguiti dall'impugnazione presentata dall'imputato, non crea diritti autonomi e non dà luogo a uno stravolgimento «della catena devolutiva», e cioé della regola ordinaria.
Ma questa regola, secondo i giudici di legittimità, non sarebbe da leggere quale sintomo della legittimazione dell'imputato ad impugnare i capi di sentenza che riguardano l'affermazione della responsabilità dell'ente, così come egli non sarebbe legittimato ad impugnare quelli relativi alla posizione di altro imputato. Tanto più che la perimetrazione della legittimazione ad impugnare è appannaggio delle scelte discrezionali del legislatore, con l'unico limite della ragionevolezza, che non potrebbe in questo caso ritenersi violato tenendo conto che, nel sistema configurato dal Dlgs 231/2001, l'ente non risponde direttamente del reato, non ha diretta soggettività penale, ma di un autonomo illecito che si risolve nel non aver saputo creare le condizioni per prevenirne la consumazione, qualora lo stesso risulti essere stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio dai soggetti indicati dall'articolo 5 del Dlgs 231/2001 (Cassazione, sezione VI, sentenza 23 maggio 2019, n. 35442).