Imposte

Su cooperative compliance e nuovi investimenti occorre più lungimiranza

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di Antonio Tomassini

Viviamo nell’epoca della compliance, anche fiscale. Compliance vuol dire adempimenti, per le aziende in particolare vuol dire aggiungere alla burocrazia “esterna” anche una burocrazia “interna”. Tuttavia la compliance fiscale, che trova la sua massima sintesi nell’adempimento collaborativo e conferisce alle aziende l’ambito ticket della buona reputazione tributaria, ha i suoi vantaggi e sembra essere d’impulso per la distensione dei rapporti tra fisco e imprese, allontanandoci per fortuna dalla falsa equazione grandi imprese-grandi evasori. Si tratta del regime, meglio noto come cooperative compliance per il quale, a fronte del tutoraggio cui si sottopongono, le grandi imprese ottengono una serie di benefici. Il decreto del Mef del 30 dicembre 2016 ha fissato al 31 dicembre 2019 il termine della fase di prima applicazione della cooperative compliance, fase a cui verosimilmente potranno accedere in pochi, essendo il regime ad oggi diretto ai: a) soggetti con volume di affari o di ricavi non inferiore a 10 miliardi di euro; b) soggetti con volume di affari o di ricavi non inferiore a un miliardo di euro e che abbiano presentato istanza di adesione al progetto pilota; c) indipendentemente dalle sopra citate soglie, contribuenti che intendano adeguarsi alla risposta all’interpello sui nuovi investimenti.

Il regime ha quindi il limite (che probabilmente a questo punto rimarrà tale sino a tutto 2019) di essere ancora lontano dall’estensione a tutti i grandi contribuenti (quelli con ricavi superiori ai 100 milioni), ma non è l’unico. I benefici non paiono infatti di grande appeal. A fronte del “denudarsi” rispetto al fisco sottoponendosi ad un regime che comporta un laborioso e costante dialogo, il dimezzamento dei termini di risposta alle istanze di interpello, l’esonero dalle garanzie per i rimborsi, la riduzione alla metà delle sanzioni tributarie, la sospensione della riscossione fino alla definitività dell’accertamento, la comunicazione al PM, in caso di risvolti penalistici, che il contribuente è in regime di cooperative compliance e il taglio di non meglio definiti adempimenti, non sembrano vantaggi sufficienti a stimolare il pieno successo dell’istituto.

Occorre innanzi tutto condividere delle best practices su come mappare i rischi fiscali, sul genere di quelle formatesi sul Dlgs 231/2001. Del resto la cooperative compliance si ispira a questo modello ed oggi, con la rilevanza penale dell’autoriciclaggio, di fatto anche i reati tributari entrano nel catalogo dei reati rilevanti per la responsabilità amministrativa degli enti. Le best practice peraltro dovrebbe aiutare ad individuare anche delle “soglie di materialità/rilevanza”, una grande impresa non può mappare tutto. Occorrerebbe individuare un modello condiviso, attingendo dalle imprese stesse (le più grandi infatti hanno necessariamente, a prescindere dall’adesione alla cooperative complicance, un modello di mappatura dei rischi ed il responsabile fiscale è presente nei comitati di rischio o comunque è coinvolto e responsabilizzato sul tema; ed anzi in futuro è opportuno che esso venga sentito sempre di più, in ogni decisione strategica aziendale).

Occorrerebbe poi una previsione che escluda la responsabilità penale (non basta dire che l’agenzia comunica al Pm l’adesione al regime), seppur con l’eccezione dei casi di frode (peraltro limitatissimi, vista la rigidità amministrativa dei grandi gruppi e la disgiunzione tra proprietà e management i casi di gran lunga più frequenti ruotano attorno all’elusione o a fattispecie da evasione interpretativa, tutte invero più o meno inoffensive penalmente). Così come anderebbe prevista la non applicazione in toto delle sanzioni amministrative (invece che il loro dimezzamento); del resto c’è già una esclusione integrale da sanzioni per chi si dota di documentazione sul transfer pricing e qui gli oneri documentali paiono ancora maggiori. Sul fronte degli adempimenti occorre poi essere più specifici sulle esclusioni. Si potrebbe pensare ad una piattaforma digitale dedicata che velocizzi rimborsi (perché non prevedere un tempo massimo di attesa?), comunicazioni, opzioni, interpelli, eccetera. Va detto tuttavia che l’agenzia delle Entrate, che è intervenuta sul tema con la circolare 38/2016, sta comunque compiendo meritori sforzi per riempire di contenuti e semplificare le interlocuzioni contribuente-fisco nell’ambito del regime. Andrebbe inoltre circoscritta la possibilità di controlli su anni pre-complicance per gli aderenti.

Questo scatto in avanti ci sembra quanto mai opportuno perché ad oggi la cooperative compliance sembra utile non tanto ex se ma più come complemento rispetto ad altre forme di dialogo con il fisco, come il ruling internazionale e l’interpello sui nuovi investimenti oppure come passo in più per quelle aziende così strutturate che sostanzialmente già internamente si autoimpongono la mappatura del rischio fiscale unitamente agli altri rischi aziendali. Nei casi infatti dove il contribuente abbia già discusso la sua politica di transfer pricing o il proprio modello di business o abbia già un sistema di gestione del rischio fiscale, a quel punto ottenere il (sempre più attraente) ticket della buona reputazione fiscale attraverso il regime della cooperative compliance appare un qualcosa di comunque vantaggioso da ottenere con poco sforzo. E lo scatto in avanti serve a maggior ragione se si vuole ampliare la platea degli aderenti a soggetti di minori dimensioni che non hanno nel proprio Dna la mappatura del rischio fiscale e che possono essere tentate di guardare alla cooperative compliance come una sorta di accertamento preventivo autoindotto, un harakiri fiscale.

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