Diritto

Vendite online, anche la piattaforma risponde per la violazione dei marchi

Secondo il Tribunale di Milano il gestore del marketplace è responsabile degli illeciti commessi da terzi

di Gianluca De Cristofaro

Il Tribunale di Milano riconosce la responsabilità per contraffazione di marchio di un noto marketplace considerandolo hosting provider attivo, con riferimento alle vendite effettuate da terzi sulla propria piattaforma. Una decisione importante che si inserisce in un quadro giurisprudenziale ancora oscillante e che sembra andare nella direzione di escludere il regime di esenzione dalla responsabilità prevista dal Dlgs 70/2003 (articolo 16).

La responsabilità del provider

La Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano, con ordinanza cautelare del 19 ottobre 2020, ha deciso un procedimento d’urgenza promosso da due produttori di articoli di profumeria di alta gamma (che avevano implementato un sistema di distribuzione selettiva a tutela del prestigio dei marchi distribuiti) nei confronti della piattaforma Amazon attraverso la quale erano commercializzate – sia direttamente dal gestore, sia tramite venditori terzi – le proprie fragranze.

Il Tribunale, dopo aver valutato la liceità del sistema di distribuzione selettiva delle fragranze (appurando che le modalità di vendita sul marketplace ne ledevano il prestigio), ha prima accertato la vendita diretta dei profumi da parte del provider – stabilendone la responsabilità per contraffazione di marchio –, e, in seguito, ha esaminato le modalità operative relative ai servizi di vendita offerti dal provider, rilevando che quest’ultimo:

gestisce un servizio clienti per le inserzioni di vendita di terzi (unico servizio di cui il cliente dispone per interfacciarsi con il venditore);

svolge attività promozionale anche tramite inserzioni su siti terzi;

permette ai consumatori di ritenere esistente un legame tra la piattaforma e le aziende produttrici dei prodotti venduti sulla stessa.

Secondo il Tribunale, l’insieme di queste azioni attribuisce al gestore della piattaforma – nella sua veste di hosting provider – un ruolo attivo, escludendolo dall’esenzione di responsabilità previsto dall’articolo 16 del Dlgs 70/2003 solo in caso di servizio «consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio», definito negli ultimi anni dalla giurisprudenza “passivo”. L’attività del gestore del marketplace, infatti, non si è limitata alla prestazione di un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, per la quale la piattaforma non conosce, né controlla, le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i servizi.

Il Tribunale ha quindi ritenuto il provider responsabile di contraffazione di marchio anche quando svolge il ruolo di intermediario tra il consumatore e i venditori terzi che sfruttano la piattaforma per la propria attività commerciale, inibendo l’ulteriore commercializzazione delle fragranze tramite il proprio marketplace.

La giurisprudenza

La decisione di Milano arriva pochi mesi dopo una sentenza della Corte di giustizia europea del 2 aprile 2020 che, all’opposto, aveva riconosciuto la natura di hosting provider passivo di Amazon (C-567/18, Coty c. Amazon). In quel caso, tuttavia, la Corte si era limitata a considerare (alla luce però delle circostanze di fatto delineate dal giudice del rinvio) la mera attività di stoccaggio svolta dalla piattaforma.

L’indagine del Tribunale di Milano ha, invece, esaminato nel dettaglio le attività svolte in concreto dal gestore del noto marketplace al fine di individuare la linea di confine tra prestatore di servizi della società dell’informazione neutrale e non neutrale.

La responsabilità del provider è, ormai, da tempo al centro del dibattito giurisprudenziale (e non solo), ma è quantomai attuale; la regolamentazione della responsabilità delle piattaforme è anche oggetto del Digital Service Act, parte della proposta presentata dalla Commissione europea lo scorso 15 dicembre per regolamentare l’offerta di servizi digitali.

La distinzione tra hosting “attivo” e “passivo” passa, ormai e inevitabilmente, sempre più da una verifica in concreto e caso per caso della condotta e delle attività svolte dai provider. Così, alcune decisioni di merito hanno ritenuto attiva la condotta del provider sulla base di attività quali organizzazione di un servizio clienti, controllo sui prodotti, profilazione e manipolazione del materiale caricato dall’utente (Tribunale di Milano, ordinanza del 13 luglio 2020; Tribunale di Roma, sentenze del 12 luglio 2019 e del 10 gennaio 2019); altre hanno invece ritenuto passivo il ruolo del provider sulla scorta della mera ospitalità di contenuti, senza manipolazione dei dati (Tribunale di Milano, sentenza del 17 giugno 2020; Cassazione, sentenza del 19 marzo 2019; Tribunale di Torino, sentenza 7 aprile 2017).

LE INDICAZIONI DEI GIUDICI NEI CASI CONCRETI

1. Hosting non attivo e non responsabile
Solo servizi di “ospitalità”
• Il Tribunale di Milano (sentenza 17 giugno 2020) ha ritenuto che Facebook offrisse servizi di fruizione di contenuti con mera prestazione di servizi di “ospitalità”, senza proporre altri servizi di elaborazione dei dati; poiché, quindi, non emerge alcuna manipolazione dei dati, il servizio resta meramente “passivo”
Tecniche di intercettazione
• Per la Cassazione (sentenza 19 marzo 2019 a conferma della sentenza della Corte d’appello di Milano del 7 gennaio 2015) la mera presenza di tecniche di intercettazione del contenuto dei file caricati, di modalità di gestione del sito e dell’interesse del gestore a trarre vantaggi economici dal sito non sono sufficienti a rendere Yahoo! hosting provider attivo
La manipolazione delle informazioni
• Secondo il Tribunale di Torino (sentenza 7 aprile 2017) il discrimine risiede nella manipolazione o trasformazione delle informazioni o dei contenuti trasmessi o memorizzati, assenti nell’attività di YouTube (in questo senso C-236/08 e C-238/08 Google contro Louis Vuitton, C-324/09 L'Oreal contro Ebay)

2. Hosting attivo e responsabile
Il ruolo promozionale
• Il Tribunale di Milano (ordinanza 13 luglio 2020) ha ritenuto che il coinvolgimento attivo vada identificato nel suo ruolo promozionale, nell’organizzazione di un servizio clienti (anche di consegna dei prodotti) e nell’esecuzione di controlli sui prodotti venduti (caso Farfetch)
Ruolo attivo
• Il Tribunale di Roma in due distinte decisioni (sentenza 12 luglio 2019 caso “Dailymotion”; e sentenza 2 ottobre 2019 caso “Bit Kitchen”) ha stabilito che la calibrazione e profilazione da parte della piattaforma finalizzate alla gestione/manipolazione complessiva del materiale caricato dagli utenti indicano un coinvolgimento attivo
Fornitura di autonomi contenuti
• Sempre il Tribunale di Roma (sentenza 10 gennaio 2019) ha considerato lo sfruttamento dei contenuti immessi in rete (selezionati, indirizzati, correlati, associati ad altri) che porta a fornire all’utente un prodotto complesso e di qualità dotato di una sua precisa e specifica autonomia (caso Vimeo)

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