Contabilità

I cinque canali di finanziamento per sostenere la crescita delle imprese

di Alessandro Germani

Non ci sono solo le banche tra gli interlocutori delle imprese, quando è necessario trovare forme di finanziamento. Possono, infatti, spesso entrare in gioco alcuni canali alternativi, legati soprattutto a esigenze di sviluppo:

•il private equity;

•il venture capital;

•la Spac;

•la quotazione in borsa:;

•il private debt.

Questi oscillano tra equity e debito, ma vanno attentamente analizzati sotto il profilo del costo che comportano e dei vincoli che introducono (si veda anche Il Sole 24 Ore del 26 gennaio 2019).

Il private equity, a dispetto della terminologia, consiste nell’apertura del capitale a terzi – i fondi – e nel ricorso congiunto a capitale proprio e debito. La modalità classica dell’operazione (Lbo – leveraged buy out) vede infatti la costituzione di una newco dotata di equity e debito che acquisisce un’impresa target, con la quale poi si fonde per far coincidere la generazione di cassa con la titolarità del debito.

La leva finanziaria può essere più o meno accentuata e la sua messa in pratica (cosiddetta «acquisition finance») comporta di solito l’intervento delle banche tradizionali, a dimostrazione del loro ruolo centrale. Il controllo particolarmente invasivo da parte del fondo, sia in termini di governance che di performance aziendali, è finalizzato a consentire il raggiungimento di un ritorno dell’investimento (Irr – Internal rate of return) a doppia cifra e a garantire in cinque anni un exit, che solitamente avviene mediante:

•la quotazione in borsa;

•il trade sale, ovvero la vendita ad un soggetto industriale;

•il secondary buy out, ovvero il passaggio da un fondo all’altro;

•il riacquisto dell’imprenditore.

Il venture capital, che ha trovato linfa nella legge di Bilancio 2019 (si veda Il Sole 24 del 10 gennaio 19), rappresenta lo stadio iniziale del private equity, tipico della fasi di seed e start up financing, che si caratterizzano per l’elevata mortalità dell’impresa. Soltanto poche, infatti, vedranno il vero e proprio sviluppo. Trattandosi di una fase assai rischiosa, non può che trovare spazio tipicamente l’intervento in equity da parte di fondi specializzati. Non essendo particolarmente diffuso in Italia, la speranza è che l’intervento normativo possa costituire l’impulso al suo definitivo sviluppo.

Recentemente è sempre più diffusa la Spac (special purpose acquisition company), ovvero una modalità assimilabile al private equity. Trattasi di una newco che si quota in borsa raccogliendo denaro in base alla credibilità dei suoi promotori, che individuano la business combination, cioè un’impresa target. L’aggregazione avviene attraverso la fusione e, quindi, la quotazione stessa della business combination, che da impresa “private” diviene “public”.

Fondamentale è il track record dei promotori che individuano l’azienda target. La quotazione di questa è negoziata privatamente con i promotori stessi, la società beneficia di un aumento di capitale per lo sviluppo (quantomeno per la componente in offerta pubblica di sottoscrizione – Ops), c’è minor necessità di clausole particolari e patti parasociali rispetto al private equity e ciò determina, quindi, una minore conflittualità.

I canali analizzati presuppongono o possono comportare la quotazione in borsa, che rappresenta la modalità principe per la raccolta di equity da destinare allo sviluppo. Il mercato mostra di gradire particolarmente le cosiddette Ops (offerte pubbliche di scambio) ovvero i casi in cui il denaro affluisce nelle casse aziendali a differenza delle Opv (offerte pubblica di vendita), in cui a vendere sono i vecchi soci. Lo sviluppo di mercati ad hoc per le Pmi, quali l’Aim, potrebbe trovare nuova linfa qualora i Pir vengano destinati per lo più ad operazioni di aumento di capitale.

Infine, fa da contraltare al private equity il private debt, forma di debito alternativa alla banca che ricomprende tutta una serie – assai variegata – di soluzioni tecniche differenti. Si va da quelle più standardizzate, come i minibond, alle più complesse che prevedono forme ibride (obbligazioni subordinate partecipative, convertibili, mezzanino, strumenti finanziari partecipativi), laddove la struttura iniziale di debito, a determinate condizioni ed anche a tutela del fondo investitore, può comportare la trasformazione (in tutto o solo in parte) del debito in equity.

La complessità di queste ipotesi va di pari passo con la necessità di strutturare le operazioni su misura, cioè in base alla specifica esigenza dell’impresa che richiede il capitale. Rispetto alla semplice componente di debito, la forma ibrida comporta, accanto ad un maggior rischio, un maggior rendimento richiesto dall’investitore, e specularmente un maggior costo per l’impresa. Infatti, rispetto ad un 3% di mutuo bancario è possibile arrivare in doppia cifra.

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