Professione

Rispunta la web tax, da anni senza decreti attuativi

di Alessandro Galimberti

L’accordo programmatico per il nuovo governo, consegnato l’altra sera al premier incaricato Giuseppe Conte (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) torna sulla web tax, definita «necessaria per le multinazionali del settore che spostano i profitti e le informazioni in paesi differenti da quelli in cui fanno business».

La formulazione del “principio programmatico” lascia intravedere la mano del primo promotore della web tax italiana - nata e subito abortita nel 2013 - Francesco Boccia, uno dei più convinti assertori degli Over the top digitali come soggetti fiscali passivi. Non è però chiaro se, nei nuovi intendimenti, la digital tax sarà quella già approvata nelle due ultime leggi di stabilità (e mai entrate in vigore per mancanza dei decreti attuativi) o altro.

La struttura della digital tax attualmente e solo virtualmente in vigore è molto simile al modello francese e strettamente imparentato con tutte le imposte digitali “nazionali” in vigore. A cominciare dal fatto che, come l'Iva e a differenza delle tasse sulle società (e sulle persone fisiche), la web tax si applica in percentuale sui ricavi e non invece sul reddito. Le soglie per l’accesso alla “digital service tax“ (dst) sono un fatturato globale di almeno 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 realizzati sul territorio italiano per «prestazione di servizi digitali».

In questa tipologia di servizi sono compresi sia la pubblicità sul web , sia la messa a disposizione del pubblico di un'interfaccia digitale multilaterale che consenta l'interazione tra utenti (le piattaforme “social”) sia infine la trasmissione di dati generati dall'utilizzo di un’interfaccia digitale (i motori di ricerca). La tassa digitale si dovrebbe pagare al lordo dei costi (è appunto “sui ricavi”), ma al netto dell’Iva e delle altre imposte indirette.

Attualmente in Europa tutti i progetti di dst somigliano a quello italiano (e francese), dalla Spagna (tassa del 3% sulle transazioni digitali) alla Germania (idem) fino alla Gran Bretagna (2% sui ricavi). L’Ungheria dal 2017 applica un’aliquota mobile (dal 5,3% al 7,5%) solo sulla pubblicità online e solo su quella in lingua magiara.

La normativa approvata due mesi in Francia - e che ha determinato la reazione degli Usa all’ultimo G7 - riguarda i cosidetti “Gafa” (Google, Amazon, Facebook e Apple) ma di fatto colpisce una trentina di giganti internet del mondo (tra cui Alibaba, Airbnb, Booking, Zalando, Ebay, Twitter, Axel Springer) ed è attesa a un gettito di 400 milioni per il 2019 e 650 milioni nel 2020. L’obiettivo della legge è tassare le imprese che «creano valore aggiunto grazie agli internauti francesi», imponendo un prelievo pari al 3% dei ricavi dei gruppi che generano affari globali per più di 750 milioni di euro in totale e più di 25 milioni in Francia.

Dopo la minaccia del presidente Usa Donald Trump di applicare dazi sui prodotti francesi, Parigi ha ulteriormente relativizzato l’efficacia della dst (che già in origine sarebbe stata “tagliandata”nel 2023 alla luce dei nuovi accordi internazionali, con un meccanismo di eventuali compensazioni) stabilendo che gli effetti della tassa digitale francese a partire dal 2021 verranno confrontati con quelli determinati dall’imposta che l’Ocse presenterà il prossimo anno come tassa digitale globale “unificata”.

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