Professione

Per la web tax l’Italia aspetta Francia, Spagna Austria e Inghilterra

di Federica Micardi

La web tax globale è ancora di là da venire, ma il tema è più che mai aperto, date le importanti implicazioni che avrà sia sull’economia dei paesi, sia sulle politiche di investimento e infine sulle aziende. Ieri a Milano se ne è parlato a un’incotro dal titolo «La sfida della digitalizzazione: impatti sul business e sul sistema fiscale», organizzato da AmCham Italy. Ospite d’onore: Fabrizia Lapecorella, direttore generale del dipartimento delle finanze del Mef.

Lapecorella ha ricordato i fatti più importanti degli ultimi anni: dal progetto Beps ai tentativi Ue, alla politica americana e all’incontro di Baden Baden. Il progetto Beps si è concluso con un nulla di fatto, anche l’Unione europea non è riuscita a trovare una posizione comune per cercare di tassare l’industria digitale. Nel frattempo gli Stati Uniti, che sono inizialmente stati i promotori di quest’idea, in un secondo momento si sono opposti, per poi rilanciare una rivisitazione del sistema di tassazione non solo per le big del web ma per le multinazionali in generale.

A Baden Baden a marzo 2018 è stato presentato un report intermedio, da cui emerge la difficoltà di tracciare una netta distinzione tra i business digitali e gli altri. La digitalizzazione si sta diffondendo nei diversi livelli della produzione e questo fenomeno disegna uno scenario in continua trasformazione e da cui risultano le posizioni dei diversi paesi.

C’è chi spinge per una tassazione attraverso il marketing intangibile (gli Usa), chi è più orientato alla tipologia di business (Gb). L’idea americana che spinge a portare più gettito ai mercati di sbocco, per l’Italia, che è molto attiva sulle esportazioni, sarebbe un problema. L’approccio anglosassone è invece meno dirompente per il nostro paese. Anche i paesi emergenti, guidati dall’India, hanno avanzato una loro proposta, che esclude i marketing intangible, e anche la base degli utilizzatori. Ma torniamo a valorizzare la presenza economica.

Attualmente la dicussione coinvolge 129 Stati. L’Italia è l’unico Stato Ue ad aver previsto una web tax, ancora non operativa perché in attesa di un decreto attuativo (in teoria doveva arrivare entro aprile 2018). Fino all’ultimo ha sperato in una normativa comunitaria, anche perché iniziative unilaterali hanno un potenziale distorsivo, ma visto che non si è trovato un accordo ha deciso di muoversi insieme agli altri paesi Ue che stanno lavorando a una web tax interna, e cioè la Spagna, la Francia, l’Austra e l’Inghilterra.

Attualmente il gettito è appannaggio del paese di residenza della multinazionale, e una revisione delle regole fiscali avrà impatti importanti non solo sulle entrate ma anche sulle strategie di sviluppo; l’Ocse ha finalmente avviato un’analisi degli effetti economici i cui risultati si conosceranno ad ottobre.

Ma è proprio necessario cambiare lo stato delle cose? A quanto pare sì e i motivi sono diversi: il maggior costo delle multinazionali è legato all’incertezza del diritto, infatti gli Stati che ritengono di non ricevere il giusto avviano i cosiddetti accettamenti fiscali aggressivi; la distribuzione della torta con le regole attuali non fuziona. Da qui la necessità di trovare regole semplici e condivise, con un’aliquota effettiva minima per qualsiasi flusso di reddito; il problema sta nel come trovare questa aliquota minima effettiva.

Le aziende presenti ieri al convegno (Procter & Gamble, Deloitte e Accenture) chiedono di poter partecipare alla discussione in modo proattivo, ricordando che per loro è necessario poter prevedere la pretesa impositiva, e riconoscono che è sempre più difficile separare le parte digitale dal tutto. C’è poi da considerare il fattore tempo, mentre si parla il mondo sta velocemente cambiando.

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