Professione

Il sistema deve essere in grado di prevenire le crisi d’impresa

di Riccardo Borsari

Il Dlgs 14/2019, cioè il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ha introdotto un importante obbligo organizzativo per l’imprenditore. In particolare, il nuovo secondo comma dell’articolo 2086 del Codice civile – aggiunto dallo stesso Codice (articolo 375, comma 2) e già entrato in vigore (articolo 389, comma 2, del Codice civile) – impone il dovere, per l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva, di istituire un assetto organizzativo, oltre che amministrativo e contabile, adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, che sia funzionale alla rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale. L’articolo 14, comma 1, del Codice civile, inoltre, pone a carico del collegio sindacale, oltre che del revisore contabile e della società di revisione, nuovi obblighi di vigilanza sul corretto operato dell’organo amministrativo e di segnalazione sull’esistenza di fondati indizi della crisi.

La nuova norma presenta importanti similitudini con il sistema delineato dal Dlgs 231/2001 in materia di responsabilità da reato degli enti e, per certi versi, può considerarsi un importante incentivo alla stessa compliance 231.

È infatti evidente, per entrambe le discipline, il favore del legislatore verso l’“auto-organizzazione interna”, che se nel Codice della crisi si traduce nell’implementazione di protocolli organizzativi in grado di consentire l’emersione della crisi d’impresa e della perdita di continuità aziendale, nel decreto 231 implica l’adozione e attuazione di un Modello Organizzativo (Mog) idoneo a prevenire la commissione di reati e l’istituzione di un Organismo di Vigilanza (Odv) incaricato di far rispettare il modello e di curarne l’aggiornamento. Tale scelta svela la rinuncia ad una regolazione “dall’alto” che, attraverso la previsione cogente di obblighi standardizzati di dettaglio, potrebbe rivelarsi meno efficace e nuocere alla libertà di iniziativa economica; si favorisce, al contrario, l’autoregolazione sulla base delle peculiarità del singolo ente.

Sono però differenti gli scopi cui mirano gli assetti organizzativi contemplati dai due testi legislativi, giacché il decreto 231 persegue la prevenzione dei reati nell’esercizio delle attività dell’ente, mentre, invece, il nuovo Codice si prefigge l’emersione tempestiva della crisi dell’impresa e della conseguente potenziale perdita della continuità aziendale.

Vi è, altresì, un’altra importante differenza: l’articolo 2086, infatti, configura un vero e proprio obbligo per l’imprenditore, mentre invece, quantomeno da un punto di vista formale, attualmente la normativa del decreto 231 – malgrado sia da diverso tempo all’esame delle Camere un Ddl (n. 726) che mira a renderne cogenti le previsioni – rimette alla discrezionalità del singolo ente la scelta se assumersi il compito della prevenzione degli illeciti.

A quest’ultimo riguardo, è peraltro risalente e diffusa la convinzione che, seppure in mancanza di obblighi formali o sanzioni specifiche, gli adempimenti contemplati dal Dlgs 231/2001 già configurino un dovere per gli enti, e ciò sia sulla base di precisi indici normativi (desumibili dall’articolo 30 del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro e da numerose fonti regionali e di settore), sia perché l’adozione del modello (e la valutazione del rischio reato che la precede) costituisce una delle forme attraverso le quali si estrinseca l’adempimento dei doveri di corretta gestione degli organi sociali (anzitutto gli amministratori). La giurisprudenza ha infatti sancito la responsabilità ein base all’articolo 2392 del Codice civile nei confronti di amministratori di società che non si siano attivati per l’introduzione del Modello 231, condannandoli a risarcire l’ente della sanzione pecuniaria inflitta ai sensi dell’articolo 10 decreto 231.

Così, in particolare, la celebre sentenza n. 1774/2008 del Tribunale di Milano, in attuazione del principio secondo cui, come ricordato dal Gup dello stesso Tribunale nel noto caso Banca Italease, «l’agire in conformità a legge è sottratto alla discrezionalità dell’imprenditore ed il rischio di non conformità non può rientrare tra i rischi accettabili da parte degli amministratori»). Tale approdo trova il suo fondamento normativo nell’articolo 2381 del Codice civile, che impone agli organi delegati delle Spa di predisporre («curare») assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa, informandone il consiglio di amministrazione, chiamato a sua volta a valutare la stessa adeguatezza sulla base delle informazioni ricevute; a quest’obbligo di valutazione si affianca il dovere dei sindaci, sancito dall’articolo 2403 del Codice civile, di vigilare «sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento».

Il nuovo Codice della crisi dovrebbe dunque rappresentare un ulteriore incentivo (anche) all’adeguamento alle previsioni del Dlgs 231/2001, nella misura in cui la modifica dell’articolo 2086 del Codice civile comporta, in sostanza, la generale estensione, in formaallargata, a tutte le imprese societarie o collettive, dei doveri sull’assetto organizzativo prima posti in capo soltanto agli amministratori delle Spa.

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