Imposte

Smart working, fiscalità da perfezionare per chi lavora da remoto

Da chiarire se il datore deve mettere a disposizione gli strumenti idonei. In caso positivo va definito se per i lavoratori tali beni costituiscono valori tassabili

di Serena Civardi e Alessio Vagnarelli

Dal marzo 2020 lo smart working rappresenta lo strumento con cui le imprese e gli enti pubblici hanno risposto all’esigenza di contribuire al distanziamento delle persone, riducendo la diffusione dei contagi.

La situazione emergenziale ha però solo rinviato l’approfondimento di questioni rilevanti connesse alla modalità di svolgimento dell’attività lavorativa da remoto.

A distanza di un anno è il momento d’interrogarsi, ad esempio, se il nostro sistema fiscale sia in grado di agevolare il passaggio verso una forma diffusa di lavoro da casa e se i paradigmi classici della fiscalità siano adeguati a intercettare le trasformazioni in atto.

Si parte dalla considerazione che per molti lavoratori poter disporre di una postazione di lavoro idonea a garantire la sicurezza e la salute (monitor, tastiera, mouse, scrivania, sedia, eccetera) non sia affatto scontato in contesti domestici in molti casi non preparati a tali finalità.

Da qui le prime domande:

1. il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori in smart working idonei strumenti di lavoro?

2. e se sì, tali beni e/o servizi rappresentano valori tassabili in capo ai lavoratori?

Nel rispondere a queste semplici domande ci si accorge subito della difficoltà dell’attuale sistema di decifrare le emergenti istanze produttive.

Nel breve termine si dovranno necessariamente utilizzare schemi tradizionali, fermo restando che, nel cantiere delle riforme fiscali, sarebbe opportuno dedicare attenzione alla fiscalità del lavoro per adeguarla al nuovo contesto economico e sociale.

Lo stesso Dlgs n. 81 del 2017, che regolamenta il lavoro agile e rispetto al quale i vari dpcm che si sono succeduti in quest’ultimo periodo emergenziale hanno introdotto elementi di semplificazione procedurale, appare oggi imperfetto nell’accogliere un fenomeno che in un lasso temporale brevissimo è passato da una dimensione ridotta ad una di massa.

Lo scopo d’incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, esplicitato dall’articolo 18, comma 1, del Dlgs n. 81/2017 sembra oggi non esaurire le finalità dello strumento. Così come il comma 2 del medesimo articolo 18, secondo il quale «…il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa» appare parziale e circoscritto (si veda l’interpello n. 13 del 2013 della Commissione per gli Interpelli del ministero del Lavoro, che conclude chiarendo che «…il domicilio non è considerato luogo di lavoro, ai sensi dell’articolo 62 del Dlgs n. 81/2008»).

Lo stesso comma 1 dell’articolo 18, nel prevedere che nel lavoro agile «…la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa…» fotografava una realtà che ai tempi in cui è stato redatto era sicuramente in crescita, ma con un impatto limitato.

Il riferimento al lavoro all’esterno dei locali aziendali «senza una postazione fissa» consentiva, coerentemente con l’originaria finalità della norma, di valorizzare la flessibilità spazio-temporale idonea a garantire un miglior bilanciamento della vita privata con quella lavorativa.

Il lavoro da casa nel prossimo futuro, invece, sarà chiamato a conciliare questa idea contemporanea di lavoro smart con il pragmatismo richiesto dalla dimensione che il fenomeno sta assumendo.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©