Contabilità

Ammortamento e affitto d’azienda: la Cassazione traccia i confini

L’affittuario si sostituisce al concedente nella posizione riferita ai beni; per il Codice civile sono possibili deroghe su base convenzionale tra le parti

di Stefano Mazzocchi

Con l’ordinanza n. 22171, depositata lo scorso 13 luglio, la sezione tributaria della Cassazione ha delineato alcuni principi chiari in merito alla spettanza del diritto di ammortizzare il bene in presenza di un contratto di affitto d’azienda. La pronuncia è importante proprio perché interviene in un ambito caratterizzato in passato da una evidente confusione terminologica.

I giudici, in particolare, in ossequio al principio di derivazione del reddito fiscale da quello civilistico, hanno preso le mosse dall’articolo 2561 del Codice civile, il cui secondo comma pone in capo all’affittuario dell’azienda l’obbligo di conservazione del livello di efficienza dei beni aziendali.

Va da sé che, sotto il profilo tributario, in applicazione dell’articolo 102, comma 8, del Tuir, l’ammortamento dei beni compresi nell’azienda data in affitto competa al soggetto tenuto a conservare in efficienza l’azienda stessa, cioè l’affittuario e non il concedente (in tal senso si richiamano ad esempio Cassazione 8 marzo 2019, n. 6836; 15 gennaio 2007, n. 675 e 24 gennaio 2001, n. 997).

La posizione dell’affittuario

Al riguardo, è molto efficace un passaggio contenuto nella pronuncia, laddove si sottolinea che «l’affittuario si sostituisce al concedente nella posizione fiscale riferibile agli elementi patrimoniali conferiti nel ramo di azienda», alla luce della circostanza che egli «è il soggetto che si assume il rischio della perdita di valore dei beni per minor valore conseguente alla perdita, all’uso o all’obsolescenza tecnologica dei beni aziendali». Di conseguenza – rimarcano i giudici di legittimità – «il risultato di gestione dell’affittuario tiene conto dell’onere per logorio e perimento dei beni aziendali, traslato dalla posizione del concedente».

Le deroghe convenzionali

Nel contesto descritto occorre peraltro evidenziare che le parti possono derogare convenzionalmente alla disciplina contenuta nel richiamato secondo comma dell’articolo 2561 del Codice civile, con un riverbero immediato sul piano tributario. Ciò avviene quando l’affittuario, proprio in virtù di tale accordo derogatorio al principio generale, non assuma l’obbligo di mantenimento in efficienza del compendio aziendale. In questa evenienza, la Suprema corte ha confermato che «la titolarità del diritto di deduzione degli ammortamenti non viene traslata sul reddito dell’affittuario (...)». Si tratta di una conclusione del tutto coerente con il richiamato articolo 102, comma 8, del Tuir, il cui ultimo periodo dispone espressamente che il medesimo comma non si applica «nei casi di deroga convenzionale alle norme dell’articolo 2561 del Codice civile, concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili» (per il regime antecedente all’entrata in vigore del Dlgs 247/20o5, si deve invece fare riferimento all’articolo 14, comma 2, Dpr 42/1988). Su tali posizioni, peraltro, la giurisprudenza di legittimità si è assestata ormai da tempo (per tutte, Cassazione 21 gennaio 2008, n. 1172 e 10 agosto 2010, n. 18537).

I profili Iva

I principi illustrati dalla Suprema corte con la pronuncia in rassegna sembrano ben coniugarsi con la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità sotto il profilo della detrazione Iva: secondo un consolidato orientamento espresso dalla Cassazione, in realtà, è pacificamente ammesso per l’esercente attività d’impresa o professionale il diritto alla detrazione Iva anche per i lavori di ristrutturazione o manutenzione effettuati su immobili di proprietà di terzi, sempre che sia presente (e inoltre dimostrabile) un nesso di strumentalità tra tali beni e l’attività svolta, anche se in via potenziale o di prospettiva e anche se – per cause estranee al contribuente – tale attività non possa poi in concreto essere esercitata (in tal senso si richiamano Cassazione 23 settembre 2021, n. 25814, 11 maggio 2018, n. 11533 e 27 marzo 2015, n. 6200). È dunque sufficiente la sussistenza di un nesso di causalità con l’attività di impresa esercitata.

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