Riforma del processo fiscale, occasione da non sprecare
Il disegno di legge governativo in materia di riforma della giustizia tributaria è atteso al Senato dove inizierà l’iter parlamentare che, entro fine anno, dovrebbe dare vita al nuovo auspicato assetto della “quarta magistratura”. Gli obiettivi della riforma erano chiari sin da subito (deflazione delle liti, celerità dei giudizi, certezza delle regole e qualità delle decisioni), ma il testo licenziato dall’Esecutivo presta il fianco a più di qualche critica, specie con riferimento alle norme di carattere strettamente processuale. Da questo punto vista, se sicuramente apprezzabile è la scelta di non intaccare l’impianto complessivo del processo, non possono tuttavia non segnalarsi, da un lato, alcune lacune, talvolta difficilmente spiegabili (quali il mancato ampliamento del contraddittorio preventivo quale condizione di nullità dell’atto impositivo rilevabile in giudizio) e, dall’altro lato, alcune disposizioni poco chiare e forse eccessivamente “prudenti” (pensiamo all’introduzione “condizionata” della prova testimoniale). Ma la vera lacuna è a monte. Mancano, nel testo, misure di immediata efficacia per la riduzione dell’enorme mole di contenzioso tributario attualmente pendente, specie dinanzi la Corte di cassazione. Ecco, un intervento di riforma che possa dispiegare effetti rapidi e concreti, non può prescindere dalla considerazione dello status quo e dallo smaltimento di tale arretrato. Sicuramente una valida funzione deflattiva non può essere riconosciuta al neo-introdotto articolo 62-quater del Dlgs 546 del 1992, disposizione che, se confermata nella versione contenuta nell’ultima bozza di Palazzo Chigi, onererebbe il ricorrente alla presentazione di un’istanza di trattazione (probabilmente a riprova di un confermato interesse ad agire) pena l’estinzione del processo. Si tratta di una previsione come minimo del tutto inutile: da un lato, infatti, è impensabile che chi ha proposto un ricorso per Cassazione possa rinunciare alla lite in mancanza di un qualche vantaggio economico; dall’altro lato, tale disposizione ricalca (con la sola differenza di onerare dell’istanza anche la parte pubblica e non il solo contribuente) l’articolo 44 del Dpr 636/1972, norma oggetto, prima della sua abrogazione, ad opera del Dlgs 546 del 1992, di molteplici censure (anche su un piano di compatibilità costituzionale). Parimenti, almeno nell’immediato, una valida funzione deflattiva non può attribuirsi al rinvio pregiudiziale e, a maggior ragione, al ricorso del Pm nell’interesse della legge, strumenti i cui effetti si vedranno nel corso del tempo e che, peraltro, a regime, andrebbero utilizzati selettivamente, al fine di evitare un «eccesso di interpretazione» per gli operatori del diritto tributarigo (già alle prese con la prassi, non sempre univoca, dell’Amministrazione finanziaria).
E allora, oggi come non mai, è necessario, in sede di esame parlamentare, ripensare ad una “nuova versione” della definizione agevolata delle liti, sulla falsariga di quella introdotta con il Dl 119 del 2018, magari limitata solo a quelle pendenti in Cassazione, e in ogni caso con eliminazione di sanzioni e interessi e meccanismi di rateazione più lunghi di quelli ivi previsti. È l’unica strada, riteniamo, per riportare indietro le lancette e dare vita effettivamente ad una nuova stagione del processo tributario.
Ciò detto sull’arretrato e sulla necessità, colta solo in parte dalla riforma, di creare i giusti disincentivi al contenzioso temerario o, comunque, connesso a questioni per le quali si è formato un univoco orientamento giurisprudenziale in senso favorevole all’Amministrazione finanziaria, per il futuro si rende necessario garantire al contribuente la massima tutela possibile. In questo senso, sarebbe innanzitutto auspicabile una riflessione circa gli atti impugnabili, che porti a una migliore e più puntuale identificazione degli stessi in linea con l’interpretazione estensiva dell’articolo 19 del Dlgs 546 del 1992 fatta propria da recenti e lungimiranti pronunce della Suprema corte. In questa prospettiva occorre, anche rivedendo le norme sulla responsabilità degli uffici dell’Amministrazione finanziaria, potenziare e ripensare l’istituto dell’autotutela garantendo, anche, una piena tutela sul versante giurisdizionale in caso di diniego. In questo senso è necessario, innanzitutto, vincolare gli uffici a risposte espresse e in tempi certi, come del resto previsto in generale nell’ambito del procedimento amministrativo.
In questa stessa prospettiva, l’attuale versione della norma che ammette la prova testimoniale appare carente e addirittura potenzialmente lesiva dei diritti di difesa del contribuente; questa sembra attribuire un valore probatorio privilegiato al contenuto del Pvc e ciò anche a discapito della possibilità che una prova testimoniale possa successivamente incrinarne l’efficacia probatoria. La disposizione, così come appare interpretabile, non sembra consentire un proficuo utilizzo della testimonianza neppure nell’ambito di fattispecie dove questa, per definizione, assume un valore cruciale. Si pensi alle contestazioni di frode e di fittizia residenza estera.
Insomma, c’è ancora un po’ di lavoro da fare. Il disegno di legge, allo stato, non propone un giusto equilibrio tra l’esigenza imprescindibile di deflazione del contenzioso, in particolare quello già incardinato, e quella, altrettanto necessaria, di consentire la piena tutela processuale al contribuente. È questo, però, il momento propizio a patto che ci sia il contributo di tutti, sia della politica che degli addetti ai lavori, per evitare che una grande occasione si trasformi in un grande rimpianto.
Decreto sull’Iva, chance per ridurre le difformità con la disciplina Ue
di Eugenio della Valle